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Prima dell’opera, l’autore. Carlo Coccioli è nato a Livorno il 15 maggio del 1920 e, dopo una lunga e densa vita, è morto a Città del Messico il 3 agosto del 2003. Se questo nome vi dice poco o niente, non c’è da preoccuparsi: non è necessario flagellarsi per la propria mancanza, né annuire in silenzio, fingendo di conoscerlo. Per tutta una serie di motivi (in brevissimo, trattasi di intellettuale politicamente e sessualmente eretico, irrequieto, quasi nomade sul piano letterario, religioso, geografico e allergico, infine, al corporativismo), e nonostante l’apprezzamento di numerosi e più fortunati colleghi (Malaparte, Tondelli, Siti, ma l’elenco potrebbe allungarsi), Coccioli è stato riposto per anni in un angolo del canone italiano.
Si può, dunque, come sempre nella vita, recuperare; e lo si può fare grazie alla casa editrice Lindau che, in occasione del centenario della sua nascita, ha deciso, e bisognerebbe ringraziarla, di ripubblicare la prolifica e multiforme opera dello scrittore toscano, francese, messicano (universale, si farebbe meglio a definirlo), a cominciare da titoli quali Il cielo e la terra, Uomini in fuga e, a chiudere per ora l’elenco, il romanzo di cui si scriverà su queste pagine: L’erede di Montezuma.
D’altronde, è proprio in Messico che Coccioli ha trascorso gran parte della sua vita, in una sorta di auto-esilio causato dallo scandalo che le sue prime pubblicazioni, legate al tema dell’omosessualità, provocarono in Europa (non impedendogli di raggiungere un considerevole successo e numero di vendite in Francia, mentre l’Italia lo censurava). Ma interrogativi e curiosità sulla vita di Carlo Coccioli potranno certamente essere esauditi a luglio, quando lo scrittore fiorentino Alessandro Raveggi, che con Coccioli condivide toscanità e legame con il Messico, pubblicherà il romanzo biografico Grande karma. Vite di Carlo Coccioli (Bompiani).
L’erede di Montezuma, dunque: un romanzo, spiega lo stesso autore nella nota introduttiva, «rigorosamente fondato su documenti storici», tanto che «c’e` da credere che anche le parole pronunciate dai personaggi siano in maggior parte autentiche; per lo meno sono loro attribuite da un’opinione cosi` antica ch’e` come se fossero autentiche».
Un romanzo storico, quindi, che racconta l’arrivo dei conquistadores spagnoli sulle coste messicane e la conseguente distruzione della civiltà azteca, in cui, come da tradizione, l’autore si insinua a colmare i vuoti lasciati dalla storia (verrebbe da citare per intero la celeberrima lettera manzoniana a Monsieur Chauvet: «Perché infine che cosa ci dà la storia? Degli eventi che non sono, per così dire, conosciuti che dall’esterno; ciò che gli uomini hanno fatto; ma ciò che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro risultati fortunati e sfortunati, i discorsi coi quali hanno fatto o cercato di fare prevalere la loro passione e la loro volontà su altre passioni o altre volontà, per mezzo dei quali hanno espresso la loro collera, effuso la loro tristezza, in una parola hanno rivelato la loro individualità: tutto questo e qualcos’altro ancora è passato sotto silenzio dagli storici; e tutto questo è dominio della poesia»).
Messa così, non sarebbe certo una novità: ma rendere questo romanzo degno di alta considerazione è infatti il modo in cui l’autore si appropria del «dominio della poesia»: punto di vista e voce narrante appartengono infatti nientemeno che a «Cuauhtemoc, figlio d’Ahuizotl, Aquila-che-Cade, coluicheparla, re di Tenochtitlan, capo della Triplice Alleanza, imperatore, undicesimo e ultimo signore del Messico, capo degli uomini».
È quindi l’erede di Montezuma in persona che, in quella che sarà presumibilmente la sua ultima notte, mani e piedi legati in attesa dell’esecuzione, tra gli inganni e le certezze della memoria («la mia memoria e` un discorso che si direbbe senza fine»), ripercorre la sua vita e quella del suo popolo, fino alla loro tragica fine.
Sin dalle prime pagine, il lettore è così preso per mano e trascinato nell’infanzia del futuro imperatore, in un mondo in cui riti, nomi e usanze, che all’occhio del lettore “altro” potrebbero apparire assurdi, vengono presentati con la naturalezza e la dolcezza di un uomo fortemente radicato al suo universo:
«Perche´ la nostra patria non era soltanto paura delle tenebre, fiumi di sangue destinati a nutrire gli de`i, durezza dei forti e pazienza, o odio, dei deboli, la nostra patria non era soltanto la misteriosa collera che sorprende perfino i piu` saggi di noi […] la nostra patria era anche altro, era soprattutto altro: la squisita grazia della nostra cortesia, i fiori dei nostri giardini, la delicatezza degli ornamenti di piume, il rispetto con cui onoravamo i vecchi, lo zelo religioso che ci riempiva l’anima, l’intelligenza dei nostri metodi pedagogici […] la bellezza della nostra terra, del nostro cielo.»
Un mondo per certi aspetti edenico, arcaico, puro, quello creato da Coccioli nelle prime pagine, ma sempre e comunque lontano dal mito del buon selvaggio, dalla fruizione esotica e folkloristica di una cultura. Sia attraverso le parole del futuro imperatore, infatti, sia attraverso in quelle di altri personaggi, Coccioli tende a evidenziare quelle che storicamente sono da considerare le crepe del mondo precolombiano, già sulla via del tramonto. Si leggano, ad esempio, le parole del vecchio Citlalcoatl, amico e maestro di Cuauhtemoc: «Fondato sulla violenza, l’impero e` minacciato dallo scoppio della violenza. Concordia, unita`, coesione: dove son mai queste basi dei regni? Odii, rivalita`, fazioni, e fuoco sotto la cenere: ecco l’impero! Chi costruisce sulla servitu` sara` rovesciato dalla rivolta dei servi».
Ciò che affascina di molti simili passaggi è come, tra echi letterari (vedasi la visione dell’Ortis foscoliano: «Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. La terra è una foresta di belve»), e l’analisi antropologica, ed è questa forse la massima prerogativa della grande letteratura, si assista al racconto di una storia di una cultura remota, ambientata in un tempo e in un luogo remoti anch’essi, e tutto questo senza avere mai la sensazione che gli avvenimenti narrati non descrivano altro che l’uomo e la sua vita nella sua più limpida essenza.
Questo anche di fronte alla descrizione del sistema educativo azteco («un luogo triste: penitenza e lagrime»), o allo straniamento provocato dal racconto di uno dei grandi temi del romanzo: la religione. Il ricchissimo e labirintico pantheon azteco («da Serpentimpiumato a Magocolibri`, e poi Germinatore, Vestepreziosa, Nostranonna, e Principefiore, e Scorticato, e Quattrovoltesignore, e Giovaneprincipe, e Piumafioore, e Setteserpente, e Quattrocentomeridionali, e Cuormontagne, e Tacchinoprezioso…»), oltre che essere una presenza costante nell’immaginario dell’opera e dei suoi protagonisti, è il cardine che regge il mondo descritto, costruito da Coccioli. Un mondo che, si capisce, è presto destinato a finire.
«Abbiamo visto una casa sull’acqua, da cui uscivano individui bianchi. Bianco il loro viso, bianche le loro mani, e le loro barbe son molto lunghe, folte, e i loro indumenti son di tutti i colori» racconta un messaggero. È il primo contatto con gli «Esseri». È qui che il romanzo deflagra, con il racconto che conduce dal principio dei rapporti tra la popolazione azteca e i conquistadores, su tutti l’enigmatica, divina per certi aspetti figura di Fernando Cortez, fino ai settantacinque giorni dell’assedio di Tenochtitlan, Città del Messico.
Gli «Esseri» così li chiamano gli «umani», ovvero gli aztechi, perché non conoscono la loro origine. C’è chi, come Montezuma II, afflitto da una sorta di «mal di dio», abbraccia la tragica convinzione della loro natura divina; c’è chi, come il suo erede, affronta un percorso di formazione e di presa di coscienza che porta inevitabilmente alla guerra.
In tutto questo, un vero e proprio saggio sui concetti di alterità e relativismo culturale: due mondi che si incontrano e si scontrano, un contatto che si verifica prima sul campo religioso (a proposito della messa celebrata dagli spagnoli: «Erano soltanto parole e gesti. Nulla fu sacrificato, nemmeno un uccello, nemmeno una farfalla»), poi sul campo di battaglia: «Signore, noi non siamo come voi, voi non siete come noi», dice Cuauhtemoc. «Non abbiamo mai fatto la guerra, noi, come animali che si battono».
L’Erede di Montezuma è dunque molto di più di un romanzo storico: è un racconto, o meglio un canto epico, scritto in una lingua che, per magnificenza strutturale e finezza estetica, si adatta allo spettro policromo, al tenore lirico, allo spessore morale della storia narrata: una storia grazie alla quale scoprire e riscoprire un mondo, ma anche, e soprattutto, un grande scrittore.
Recensione di Ignazio Caruso
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