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Cioran ha sempre amato i grandi ritrattisti francesi, da Saint-Simon a Tocqueville. E in questo libro ha mostrato come continuare, per vie impreviste e oblique, la loro arte. Qui troveremo ritratti di Beckett e di Borges, di Michaux e di Fitzgerald che subito toccano l’essenziale e ci restituiscono un’immagine di questi scrittori che non riusciremo mai a cancellare. L’ammirazione va talvolta insieme a una lunga schermaglia con l’autore di cui Cioran parla, visibile soprattutto nei saggi su Joseph de Maistre e Paul Valéry. Testi estremi l’uno e l’altro: il primo perché dedicato al «più appassionato e più intollerante fra i pensatori», il secondo perché mosso da una «esasperazione impura» che accende tutti i possibili contrasti. Fuori da questo eccesso di nettezza, anzi dall’interno di una ominosa penombra, ci viene incontro invece il ritratto di una donna incontrata soltanto due volte, vera «creatura della luce lunare». E ovunque avvertiremo, nella vibrazione di questa prosa, la «superba vertigine» dello scrittore.
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Essere ammirati da un uomo come Cioran è come avere una cometa nel taschino e sapere che il proprio sentire ha lo sguardo intatto e autentico della verità incarnata, sapere che il proprio sogno ha sotto le suole tragitti giusti, sapere che quell'invano che è ovunque almeno in un'esistenza ha potuto deporre le armi e accettare senza discussioni la precedenza della grazia, del talento a vivere e sentire la vita che non può trovare critiche o rivali, del lasciare lungo il cammino ricordi e esempi oltre la sciatta normalità di cui ognuno è vittima. Solo a nominare gli "ammirati" tremano i polsi: Michaux, un uomo il cui genio era di una curiosità e una vastità ingovernabili, la Zambrano, aquila poetica come pochissime, Benjamin Fondane, umilissimo genio dalle prose di sole deportato ad Auschwitz. E altri ed altri ancora sotto la carezza privilegiata di questo eterno cantore della marcescenza lucente che amava la vita e le sue lucide vertigini più di se stesso.
verso la fine del suo saggio su Borges, Cioran lo definisce" uno degli spiriti meno pesanti che vi siano mai stati". Dev'essere stato davvero un odio feroce a suggerirgli queste parole, che fingendo i modi del complimento scagliano contro l'Argentino il più sanguinoso degli insulti. In realtà la leggerezza riguarda solo il suo eclettismo, la cosa cioè più superficiale che vi fosse in Borges, sfruttata abilmente da quest'ultimo per guadagnarsi la pagnotta nelle conferenze europee. So con certezza, perchè me lo disse una volta un importante traduttore ebreo argentino, del quale tacerò il nome, che, al ritorno dai suoi tours, trovandosi nella ristretta cerchia dei suoi amici di Buenos Aires Borges sfotteva la dabbenaggine deli europei, con queste parole: " Quanto sono ingenui costoro: ogni volta che vado la' racconto le più ignobili panzane ed essi se le bevono come oro". No. la grandezza di Borges è nei racconti: Emma Zunz La rosa di Paracelso, La fine. Poche pagine pesanti come il piombo, tali da superare in profondità l'estesa opera omnia di molti autori a lui coevi. Cioran compreso. S. Pelagatti
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