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Siamo abituati a vedere l’Iran solo come il più pericoloso degli stati canaglia. Difficile quindi averne una visione in chiaroscuro, quale quella che ci propone invece Farian Sabahi, iraniana per parte di padre, giornalista e docente universitaria in Italia. Il libro è il reportage di un’estate a Teheran, come onestamente dice il titolo, niente di più e niente di meno. Vi troviamo una società civile più ricca e differenziata di quanto ci aspetteremmo, con alcuni aspetti anche sorprendenti: le donne (pochissime, comunque) che praticano il pugilato o i rally automobilistici, che non arrivano più vergini al matrimonio, ma che continuano ad ereditare la metà di quello che spetta ai fratelli, i transessuali che possono operarsi, Ahmadinejad che – non essendo un mullà - ha ricevuto voti anche dai tanti che non ne possono più del clero, i tassisti che fanno finta di non vedere i membri del clero per non doverli trasportare. Una società ingabbiata da regole assurde: l’80% dei posti all’università sono riservati ai combattenti della guerra con l’Iraq o ai loro discendenti, la polizia religiosa che reprime violentemente i comportamenti più innocenti. Un paese che nella sua storia, a dispetto delle recenti chiusure, ha saputo offrire rifugio ad ebrei ed armeni, e che oggi esso stesso ha un’importante diaspora all’estero. Un’economia dalle grandi potenzialità, costretta ad importare benzina perché esclusa dalle tecnologie di raffinazione degli idrocarburi e anche per questo permeabile alle velleità nucleari. Secondo me, il libro è pieno però di dettagli inutili, che lo rendono un po’ ripetitivo, mentre le informazioni importanti avrebbero potuto riempire metà delle pagine.
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