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Anno edizione: 2019
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Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura
Questo libro è un documento complesso sulle origini, gli sviluppi e la storia dell'etnopsichiatria e del dibattito intorno alle metodologie e alle pratiche teoretiche utilizzate dalle scienze sociali, in particolare la disciplina antropologica, ma è soprattutto uno strumento di sensibilizzazione al rispetto per gli "altri" (nella società italiana attuale, i migranti).
La prospettiva storica che propone invita a esaminare i concetti basilari dell'antropologia (quali cultura ed etnicità) e il percorso di costruzione delle categorie epistemologiche e diagnostiche della psichiatria esercitata in popolazioni non occidentali. Questo processo è illustrato dall'autore attraverso i rapporti fra colonizzatori e colonizzati, attraverso le pratiche "istituzionalizzanti" e di esclusione sociale; attraverso i rapporti di potere che hanno caratterizzato il rapporto fra l'Occidente e gli altri. È all'interno di queste dinamiche che sorge l'interesse da parte di medici e psichiatri per le malattie e i disordini di comportamento delle popolazioni assoggettate, allo scopo di conoscerle, ma anche di rieducarle ai modelli di civiltà europea. In questo contesto (secoli XIX e XX) si situano le origini dell'etnopsichiatria (o meglio della psichiatria transculturale), con figure come Emil Kraepelin, Gilles de la Tourette e, successivamente, personaggi come Frantz Fanon, la cui "etnopsichiatria militante" (come viene definita da Beneduce) "restituisce la parola a quegli uomini e a quelle donne schiacciati dal dolore psichico e dall'umiliazione dei corpi, dalla violenza della Storia".
La seconda parte del libro, intitolata L'etnopsichiatria come etnoscienza, inizia con l'opera di Georges Devereux, il quale, secondo l'autore, avrebbe gettato le fondamenta per lo sviluppo dell'etnopsichiatria "sia nella definizione della sua specificità disciplinare, sia nella costruzione delle sue strategie metodologiche". Mettere in luce, rendere esplicita la storia delle nostre certezze, dei concetti e delle metodologie che hanno guidato il nostro fare "scientifico" istituisce le premesse necessarie per addentrarsi nel secondo asse che struttura il discorso di Beneduce: l'analisi dei processi di costruzione e di produzione sociale della malattia mentale. Il suo obiettivo è quello di approfondire i processi attraverso i quali un gruppo sociale crea, vive, rappresenta e reagisce di fronte alla malattia (compresi la diagnosi e le tecniche terapeutiche tradizionali); interesse che sorge anche dal momento in cui la follia è considerata una critica implicita dell'ordine sociale, dei rapporti di forza e delle forme di violenza presenti in ogni gruppo sociale, in ogni cultura (l'autore richiama l'opera di Foucault).
Ma questo bisogno di concepire la malattia all'interno di un contesto più ampio, di osservare la mappatura nella quale malattia e malati sono immersi all'interno di un gruppo sociale, e di conseguenza di addentrarsi nei vissuti dei suoi componenti, non è sufficiente. Beneduce ci riporta a uno dei contributi più significativi del lavoro di Devereux: il ruolo che compie l'inconscio nei modi con cui l'etnologo raccoglie i dati, compie la pratica etnologica e costruisce teorie; la "complicità" fra etnologo e informatore. Sono argomenti che ancora oggi fanno parte dell'acceso dibattito all'interno della disciplina antropologica, quello che tocca l'oggettività delle etnografie, e di conseguenza l'oggettività-scientificità della disciplina stessa, che Devereux avrebbe ritenuto possibile nel momento in cui una teoria rinunciasse a "essere totalizzante nelle sue interpretazioni o spiegazioni delle cause di un fenomeno".
L'ultima parte del libro si occupa della pratica della "clinica della migrazione"; asse che agli occhi dell'autore "rappresenta [l'etnopsichiatria] forse meglio nella sua vivacità, nelle sue contraddizioni, nelle sue poste in gioco propriamente politiche". Beneduce chiama a una clinica delle migrazioni che tenga conto del contesto d'origine dei pazienti, ma invita contemporaneamente ad ascoltare "l'attrazione esercitata da opposti modelli di individuazione e di autonomia se si intende attuare la dolorosa divisione [nonché lacerazione] che spesso si genera nella vicenda migratoria". La proposta è quella di lavorare sulle tensioni, i dubbi, le lacerazioni "spesso lancinanti fra libertà individuale e senso sociale", che nascono in contesti di profonde sofferenze, di inimmaginabile violenza, di lotte ripetute per sopravvivere, e che sembrano senza fine poiché i migranti si ritrovano, nel paese di arrivo, in difficoltà per ottenere un permesso di soggiorno, un lavoro dignitoso, ecc. La cura consiste prima di tutto nel saper osservare, ascoltare, e condividere in una pratica che riconosca finalmente l'altro come umano. Lina Jaramillo
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