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Uno studio attento a quel misto di reciproca diffidenza che permane sempre (grattando via la patina delle cordiali relazioni diplomatiche) tra le due sponde dell'Atlantico.
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Il titolo del nuovo lavoro di Massimo Salvatori parrebbe delimitare un tema molto circoscritto nell'ambito del pensiero politico statunitense. Ma, per certi versi, così non è. L'autore propone infatti al lettore una summa della cultura politica del Nuovo mondo, partendo dai padri fondatori, per arrivare all'epoca di Franklin Delano Roosevelt. Non viene, tuttavia, in alcun modo tradito l'intento iniziale: il fatto è che, mentre uno studio sull'immagine europea degli Stati Uniti rappresenterebbe un aspetto, sia pur importante, comunque parziale e non sostanziale del pensiero politico europeo, l'inverso coglie un elemento fondamentale della cultura politica americana.
In un aureo saggio, dal titolo L'America e l'immagine dell'Europa (1960), già lo studioso statunitense Daniel J. Boorstin osservava come nell'Ottocento gli americani avessero utilizzato gli aggettivi American e European più nel senso di un'antitesi logica che di connotazione geografica. Di tale antitesi, a suo parere, si era nutrito, in tutta la sua evoluzione, il vago concetto di "americanismo". In vari periodi e in diverse parti degli Stati Uniti, alcune culture extraeuropee avevano influito sul modo in cui gli americani concepivano se stessi, ma tutte queste varianti erano state transitorie, locali e insignificanti se confrontate con la tendenza a conoscere se stessi come "non-europei". Una questione cruciale della cultura politica statunitense è stata, dunque, costantemente rappresentata dalla ricerca di un'identità, e per definirla gli americani sono ricorsi quasi sempre all'opposizione con l'Europa. J. Hector St. John de Crèvecoeur, ad esempio, descriveva come un uomo dovesse cessare di essere "europeo" per poter diventare "americano". Thomas Jefferson, scrivendo a Joseph Priestly nel 1801, affermò che, prima della fondazione degli Stati americani, il solo essere umano conosciuto nella storia era stato quello del Vecchio mondo, "affollato entro confini ristretti e sovraccarichi, e immerso nei vizi che una simile condizione genera". Circa cinquant'anni dopo, Henry Adams spiegò che, nello scrivere la storia delle amministrazioni di Jefferson, non intendeva concentrarsi semplicemente sulla società americana in se stessa, bensì cercare di giungere a essa attraverso il contrasto "con l'artificiale società dell'Europa".
La premessa su cui si fonda il lavoro di Salvadori non è solo che negli Stati Uniti sia stata prevalente e si sia conservata ininterrottamente la convinzione di una superiorità etica, politica e civile del Nuovo mondo sul Vecchio, ma che, alla radice, il "mito americano" costituisca, sostanzialmente, "la manifestazione di una teoria della superiorità dell'America sull'Europa e sul resto del mondo". In oltre cinquecento pagine, scritte con la rara qualità di rendere in termini "semplici" anche le questioni più "difficili", l'autore, ripercorrendo i testi dei grandi "classici" e di altri scrittori meno noti, ma tutti per certi versi "paradigmatici" in merito alle grandi linee di tendenza del pensiero politico statunitense, mette in luce la persistenza dell'immagine dell'America come "non-Europa". L'Europa, la "madre" da cui gli americani trassero la linfa vitale, fu percepita immediatamente come "matrigna", da cui era necessario differenziarsi in tutto o quasi.
L'Europa, questa fu la tesi dominante nei dibattiti sulla costituzione, non aveva niente da insegnare all'America. Sulla base dei tratti caratteristici dell'etica puritana, Benjamin Franklin riconobbe quali virtù del popolo americano l'abitudine al lavoro, la frugalità dei costumi e la semplicità dei sentimenti, contrapponendo a esse le speculazioni, i piaceri costosi e i divertimenti degli inglesi. John Adams vide nell'America quell'equilibrio tra individui, gruppi e società che, a suo avviso, era del tutto assente in Europa: mentre nel Vecchio continente i governi cospiravano contro i loro stessi popoli e contro la libertà, in America si realizzava un "governo misto" benedetto da Dio. Alexander Hamilton, pur essendo per molti versi uno dei padri fondatori più "europei", affermava che l'America doveva mantenere e preservare la propria unità per non riprodurre la conflittualità tipica del Vecchio continente. Thomas Jefferson esaltava i coltivatori americani come "popolo eletto da Dio", presso il quale non vi era la corruzione regnante, invece, tra le masse urbane europee. L'elenco di affermazioni di questo tenore potrebbe continuare all'infinito. Frequentemente, come si è visto, le caratterizzava una forte impronta religiosa: l'America era considerata la nuova terra promessa, mentre l'Europa appariva come l'Egitto da cui il popolo eletto era fuggito.
Un'altra componente significativa delle posizioni antieuropee era rappresentata poi dalle polemiche contro la Francia. Un notevolissimo pensatore immigrato negli Stati Uniti dalla Germania, Francis Lieber, individuò, in particolare, la massima espressione della tradizione europea continentale nel centralismo francese. Il bonapartismo, a suo parere, costituiva l'ultima espressione "di una tradizione di dispotismo democratico che aveva avuto la sua matrice nel pensiero di Rousseau". Analogamente William Ellery Channing contrapponeva alla Francia, dove tutto discendeva dai capi, l'America, a cui vedeva assegnato dalla provvidenza il compito di diffondere il valore della libertà. E così anche Edward Everett, il quale rimproverava alla Francia di essere passata da un esperimento sanguinoso all'altro: le "tigri umane" francesi, a suo avviso, avevano osato "invocare il sacro nome della libertà repubblicana per coprire i loro abomini". Nella storia americana, invece, Everett vedeva il compimento della storia della libertà: la costituzione degli Stati Uniti rappresentava per gli uomini liberi ciò che per il popolo eletto erano state le tavole della legge consegnate da Dio a Mosè. Anche nella polemica antifrancese si potrebbe, naturalmente, proseguire con innumerevoli esempi, e, nel corso del Novecento, andando oltre l'arco temporale che Salvadori ha tracciato nel proprio studio, si incontrerebbero, tra l'altro, i duri attacchi rivolti alla Francia gollista, nuova incarnazione, agli occhi degli americani, del centralismo e dell'autoritarismo europei.
Il Novecento, però, rese necessari altresì nuovi sviluppi all'interno dell'antitesi America-Europa. Anche su questo possono ritenersi valide le osservazioni di Daniel J. Boorstin: se nel secolo precedente gli americani, per molti versi, avevano pensato se stessi come una felice eccezione rispetto alla norma europea, l'interventismo del presidente Woodrow Wilson fece, invece, degli Stati Uniti d'America il "modello" per una nuova Europa. Come mette in luce Salvadori, il programma wilsoniano consisteva, in estrema sintesi, nella proiezione dell'immagine americana sull'Europa. L'internazionalismo e l'ipotesi del Vecchio mondo come "potenziale America" fu, comunque, una prospettiva abbracciata solo da una minoranza intellettuale. La Grande guerra non scoraggiò gli statunitensi dallo scorgere nell'Europa l'anti-America, caratterizzata da miseria e oppressione endemiche. Anzi, in un certo senso, gli americani si sentirono "rifiutati" dall'Europa, per la quale avevano versato sangue e profuso risorse.
L'isolazionismo degli anni tra le due guerre riaffermò, pertanto, la vecchia polarità. Tanto che durante la campagna presidenziale del '28, Herbert Hoover, candidato repubblicano, rispolverò il classico contrasto tra il sistema americano, con il suo rugged individualism , e la diametralmente opposta filosofia europea, imbevuta di dottrine paternalistiche e di socialismo di stato. Coerentemente con questo impianto concettuale, Hoover, tra il '29 e il '32, sostenne che le difficoltà economiche interne, di per sé, avrebbero prodotto soltanto un riaggiustamento generale, come era avvenuto in molti altri casi. La Depressione, quindi, era "un uragano proveniente da fuori", e dimostrava ancora una volta (come già la guerra mondiale) la necessità di tenersi alla larga dall'Europa.
Molto diversa fu certamente la prospettiva adottata da Franklin Delano Roosevelt, che si interrogò sulle debolezze dell'economia americana, e che, per superare l'impasse, fu aperto alle esperienze e alle competenze provenienti dal Vecchio mondo. Salvadori si sofferma inoltre su diversi casi di autocritica americana: da quella produttivistica e antiaffaristica di Thorstein Veblen al democraticismo liberal di Walter Lippmann, dall' American socialism di Norman Thomas all' American fascism di Lawrence Dennis. Quasi sempre, però, anche costoro, più o meno inconsapevolmente, criticando da punti di vista diversi l' American mind , finirono in realtà per lasciarsi influenzare dalla vecchia antitesi. Rivelarono cioè quegli elementi ben evidenziati da Salvadori in tutto il lungo itinerario che il libro ripercorre: il "senso di superiorità" dell'America nei confronti della old mother Europe o anche, direttamente, il "complesso di inferiorità" che ne è per molti versi la causa.
Giovanni Borgognone
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