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Già i grandi teorici degli anni venti da Balázs ad Arnheim per non citarne che due fra i più rappresentativi nel tentare di definire la specificità del linguaggio del cinema individuarono nel montaggio e nel primo piano quegli aspetti che più di altri permettavano al cinema stesso di guadagnare davvero una propria autonomia estetica. Altri studiosi nei decenni successivi evidenziarono l'importanza del primo piano e in particolare dell'immagine ravvicinata del volto umano sino ad arrivare ai più recenti contributi di Barthes Deleuze e Aumont.
è in questo contesto che va collocato Face/On (titolo che è una sorta di omaggio al film di John Woo Face/Off). Nel libro si ritrovano alcuni dei temi chiave del dibattito teorico sull'importanza del primo piano. In particolare quelli realtivi al modo con cui il cinema attravero l'immagine del volto umano rappresenta l'essere dei suoi personaggi visualizza stati d'animo emozioni sentimenti li rende riconoscibili allo spettatore permettondogli di farli propri e di identificarsi così con quelle ombre che si agitano sullo schermo. Il primo piano del volto umano va infatti pensato come un terreno di frontiera che unisce il mondo esterno a quello interno una soglia attraverso cui passare da un universo a un altro una mappa di segni che permette di rendere visibile ciò che visibile non è. Se per certi aspetti attraverso il primo piano il regista di un film si mette in disparte affidando all'attore e in particolare al suo volto il compito di esprimere ciò che il film deve in quel momento esprimere sotto altri aspetti un primo piano non sarà mai il solo a parlare e il regista si riprenderà ciò che da una parte si è tolto accompagnando quell'immagine con certi effetti sonori compresa la posssibilità del silenzio con un determinato taglio di inquadratura con uno studiato gioco di luci e soprattutto collocando quell'immagine tramite il montaggio all'interno di una catena di immagini che contribuirà fortemente a darle un senso sia sul piano narrativo sia su quello affettivo.
Ma al di là di queste considerazioni il pregio del libro di Marineo sta soprattutto nel pensare al primo piano del volto umano non come a un'istantanea bensì come a un'immagine narrativa (non a caso il sottotitolo del volume). Per dirla con le parole dell'autore: Cercare di leggere i volti come marchingegni narativi significa probabilmente indagare proprio la differenza fra il volto come superficie immobile che riflette uno ‘stato d'animo' e il volto come campo in cui hanno luogo i ‘moti dell'animo'. A partire da questa interessante ipotesi Marineo proprone una serie di letture di film quasi tutti contemporanei (fra cui un ruolo prioritario è occupato dai lavori di Kubrick Cronenberg e Lynch ma ci sono anche fra gli altri Leone von Trier e il già citato Woo) in cui ciò che viene preso in esame sono proprio le metamorfosi del volto umano le tappe del suo divenire e il modo in cui esse si intrecciano con gli sviluppi della narrazione e le sue svolte drammatiche. Marineo riesce così a disegnare una tipologia di possibili volti cinematografici che a partire da un'ostentata espressività passa alla perdita d'eloquenza alla cancellazione della dimensione umana allo smarrimento dell'identità attraverso il gioco degli sdoppiamenti fino a giungere alla fissità artificiale emblematizzata dalla maschera indossata da Tom Cruise in Eyes Wide Shut.
Dario Tomasi
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