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Questo volume di Luciano Curreri intende dar conto degli innumerevoli debiti della nostra letteratura corredati di suggestioni cinematografiche, critiche, artistiche (gli uni e le altre, va però precisato, non solo italiani) accumulati lungo i decenni nei confronti della guerra civile spagnola (1936-1939). Le metaforiche "farfalle di Madrid" della prima parte del titolo che bruciano, al contatto con quella sanguinosa guerra intestina, "la loro esistenza letteraria e civile" rinviano a un racconto sciasciano rispolverato per l'occasione: L'antimonio.
Uno scrittore, l'"antisiciliano" Sciascia, che sfugge da tutte le parti e di cui Curreri tenta di mettere vanamente a fuoco la complessa, guizzante personalità. Ma è l'operazione nel suo insieme a lasciare perplesso il lettore (per quanto, di fronte a tanta abnegazione e certosina applicazione, dirlo un po' mi duole). Lasciano il tempo che trovano certi attraversamenti tematici e certe ipotesi critiche supportate da un'analisi pedantemente minuziosa, che suscitano qualche curiosità ma solo raramente attivano un reale interesse scientifico. Si seguono con un occhio un po' distratto le spigolature su Hemingway e Malraux, i rilievi sull'"inumanità" silenziosa di Delfini e Vittorini, le pagine dedicate al Tabucchi di Sostiene Pereira, i passaggi sulla "nuova politica della letteratura" di Chistian Salmon, fondatore di un virtuale parlamento di scrittori strasburghesi che, con la loro aspirazione a "diventare minoritari", mostrano di voler reagire all'omologazione e alla standardizzazione imposte dalle triviali logiche commerciali. Ma poi, soprattutto, questa prova di Curreri tira la volata alla conservazione e alla catalogazione: la conservazione di una codina e mummificata critica letteraria che sorvola o sfiora la carnalità dei testi e, non avendo più molto di nuovo da dire, ridice marmorizzata il già detto (salvo rilanciare ogni tanto con la scusa dell'intertestualità); la catalogazione, sovrabbondante e apparentemente d'antan, cui la modernità penultima e postrema ci ha riabituato dopo la teoria dei minimalismi, dei decostruzionismi, dei destrutturalismi.
Poteva essere, quella ripercorsa dall'autore, la storia con la esse maiuscola, niente chiacchiere e tutta documenti (avremmo salutato nell'operazione, li si fosse lasciati parlare di sé, l'ennesimo miracolo neopositivistico), ed è invece una sequenza di piccole e grandi storie maneggiate con una sgobbona ed esibizionistica volontà di strafare. Mentre si sottacciono relazioni materiche, fondate sulla puntualità dei riscontri tematici o testuali, si tessono per altro verso orditi difettosi o insustanziali, si scialacqua in minuzie e citazioni estravaganti, si estraggono dal cilindro della prestidigitazione bibliografica e mnestica illusorie pietre di paragone. Imperdonabile a protestare è qui il militante soprattutto la sponda offerta al "microfilologismo spicciolo" e all'"esagerata proliferazione dei commenti". Una scelta di campo d'altronde obbligata per chi, come Curreri, scambia troppo spesso l'affondo esegetico con l'ipertrofia strabica delle argomentazioni decentrate e dei recuperi onnivori. Gli elogi del marginale e del particolare, che fuor della provocazione di un Tabucchi o di un Magris non funzionano, nel suo caso finiscono alla lunga per infastidire; e il tentativo di fondazione di una sorta di ecoletteratura che si appelli al criterio dell'"urgenza inattuale" per denunciare la necessità di recuperare tradizioni "quasi perdute" o "quasi inesistenti" può rappresentare alla lunga un comodo alibi per sfilarsi da più impegnative questioni.
È vero: "storici e critici letterari non dovrebbero parlare solo di quello che amano" (lo sto facendo anch'io); ed è senz'altro meglio cimentarsi nella lettura di un libro spiacevolmente utile anziché di uno piacevolmente inutile. Oggi, nondimeno, non baratterei mai un libro bello con uno che sia soltanto utile (e dubito che quello di cui stiamo parlando lo sia). Abbiamo bisogno di rapinose visioni e di incantatrici estasi. L'illuminismo che si fa storicismo non illumina ormai più niente e nessuno, tanto più se annoia. Massimo Arcangeli
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