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Gli anni nei quali sorge questo bellissimo scritto sono l'entrata che Malaparte adopera per avviare il racconto: "Poiché è molto più difficile, per ragioni varie e non tutte pacifiche, scrivere la storia di un uomo che di un animale, nessuno arrischierà di rimproverarmi se imprendo a scrivere la storia del mio cane, Febo". Aggiungendo subito dopo un richiamo al lettore italiano, come preso da un fideismo quasi mitico di fronte a un tempo di non grandi promesse:"Poichè, quando manchino uomini su cui posare gli occhi, gli italiani di tutto si fan personaggi storici; e gli alberi, un pezzo di legno, un monte, un fiume, prendono forma e sostanza di eroi, persone, uomini esemplari". Un diario che è un dialogo silente di gesti, di compagnia meravigliosa, di mosse e di sguardi, il catalogo di un'intesa nata e agitata da un codice di bisogno reciproco, dalla necessità di un incontro che nessuna solitudine potrà mai surrogare, un incontro assoluto. Dai primi approcci più che diffidenti alla tenerezze parziali, dal passo comune alla fiducia totale, fino a un influsso reciproco dove l'essenza di Febo sale i gradini della difficile personalità dell'amico, e l'anima di Curzio rapisce, fiuta e tocca l'intima e saggia semplicità di un fratello. Il senso affiora da solo nel contatto, nel respiro che è confronto e sussurro, e che genera dipendenza e amore oltre le rozze divisioni fra chi porta e chi è portato, annullandole. "L'uomo pensa, il cane sente", scriverà Malaparte, come in un'elegia mai stanca nella quale la conoscenza è assoluta; Febo ama il sole, "questo giallo pane appena sfornato", ed è il cielo di una Lipari selvaggia e calda d'amicizia che attornia le due vite come alleato e padre nel suo paesaggio di mito. Storia di un amore, non può definirsi altrimenti questa reciproca dedica, un piccolo poema in prosa dove la gratitudine alza le sue mani e le sue zampe a carezze d'eterno. Perché, come Malaparte dirà nella Pelle: "Febo era un cane come me".
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