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Fedele alle amicizie - Geno Pampaloni - copertina
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Dettagli

1992
Tascabile
208 p.
9788811675150

Voce della critica


recensione di Bellocchio, P., L'Indice 1992, n. 7

"Questo libro", scriveva Geno Pampaloni nel congedare "Fedele alle amicizie", edito da Camunia, 1984 "è, per molti aspetti, un libro involontario, messo insieme con pezzi occasionali, che furono scritti senza neppure il sospetto di un progetto unitario". E sottolineava la varietà dei generi ("memorie, veri e propri racconti, prose d'arte, moralità") "disuguaglianze e discontinuità", ripetizioni, "salti di tono" e d'umore. Eppure quei pezzi, scritti in tempi e occasioni diverse, finivano senza volerlo per comporre un libro ben più organico nella sostanza di tantissimi altri concepiti e progettati come tali. (questa naturale unità e coerenza s'è ulteriormente rafforzata nella nuova edizione uscita ora da Garzanti, in virtù di pochissimi semplici ritocchi: l'eliminazione di tre o quattro pezzi, l'aggiunta di altrettanti (sui trenta circa complessivi), e qualche modifica nella distribuzione interna. Auguriamoci che all'edizione garzantiana tocchi miglior sorte del magro successo di stima registrato dal libro alla sua prima uscita.
I frammenti autobiografici di "Fedele alle amicizie" sono soprattutto una testimonianza sul capitolo più traumatico della storia dell'Italia unita: l'ultima fase del fascismo, le leggi razziali, l'entrata in guerra, la sconfitta, la resistenza. La formula-slogan imposta dall'editore in copertina ("Il ritratto morale e sentimentale della generazione passata attraverso il fascismo") rappresenta una forzatura, che fa torto anche all'autore, cosi schivo, scettico, refrattario alle generalizzazioni. Sarebbe bastato impiegare al posto dell'articolo determinativo "il" l'indeterminativo "un" per dare il senso di questo "ritratto". Che è infatti un contributo che si aggiunge ai moltissimi che già esistono, alcuni dei quali di primissimo ordine: alla generazione di Pampaloni, anno più anno meno, appartengono Primo Levi, Zangrandi, Revelli, Fortini, Cassola, Bassani, Pasolini, Fenoglio, Meneghello, per limitarmi ai primi nomi che mi vengono in mente.
Dunque un contributo inevitabilmente di parte, ma, ciò che importa, originale. Intanto perché lo scenario non è dei più tipici. Il destino non porta il tenente Pampaloni in Grecia, in Africa o in Russia, come tanti suoi coetanei, ma prima in Corsica, dove lo coglie l'8 settembre, e poi nel Corpo di Liberazione "badogliano" che combatté a fianco degli angloamericani contro i tedeschi. E proprio a questa esperienza, così inedita, mentre la memorialistica partigiana è strabocchevole, sono dedicati alcuni dei pezzi migliori del libro. Ma l'originalità non si limita agli scenari. C'è una chiarissima scelta dell'autore nel privilegiare certi episodi, aspetti, personaggi, piuttosto che altri, nello smorzare valori troppo strombazzati e nel recuperare valori negletti. Un'intenzionale, anche se per lo più implicita, polemica verso gran parte della letteratura di testimonianza che riguarda gli stessi avvenimenti e problemi, percorre tutto il libro.
Compaiono nella raccolta personaggi come Olivetti e Noventa, Ansaldo e Attilio Momigliano, mentre si affacciano giovani intellettuali destinati a diventare presto famosi. Ma a prevalere nettamente sono le persone comuni: i genitori anzitutto (il padre mediatore di granaglie, la madre maestra elementare), il centurione B., il parroco di Caramagna Piemonte, il sergente Mancioppi, i tenenti Gostino e Lo Fermo, i maggiori Emme e Zeta, il caporale Pedro, nonché un paio di cani e una gatta. Non solo hanno maggiore spazio e attenzione, ma sono soprattutto loro, gente oscura e modesta, a impersonare i momenti di massima tensione emotiva e morale.
Il nucleo drammatico del pezzo che rievoca il corso allievi ufficiali a Salerno, dove l'autore conosce e fa amicizia con Pintor, Gerratana, Salinari, Stille, Lombardo Radice, è il furto del materasso subito da Salinari. Poiché la mancata riconsegna avrebbe comportato la punizione della vittima ("colpa oggettiva"), si poneva il problema della "scelta morale giusta": denunciare il furto e patire il castigo, oppure "arrangiarsi" a spese di qualcun altro. La discussione, "impostata kantianamente da Gerratana", durò tutto il giorno. Pampaloni era per la denuncia: "E non già per rassegnazione, come fui accusato, o per rifiuto della 'lotta per la vita', o come anche fu detto, per idealismo ma perché mi pareva ingiusto scaricare su un altro, ignoto, il colpo della sfortuna... allungando così per propria scelta la catena degli incolpevoli puniti". Salinari preferì risparmiarsi la punizione, rubando a sua volta un materasso. "Fu chiaro a tutti", conclude Pampaloni, "che si era trattato di una divisione profonda, ideologica, tra personalisti e materialisti storici...".
L'episodio è narrato con serietà; con appena una punta d'ironia, ma il lettore non può fare a meno di paragonarlo ad altri dove non sono in scena intellettuali bensì gente comune. Per esempio, "Oro alla patria", in cui i genitori dell'autore devono decidere sull'invito, che era un'imposizione, del regime fascista a donare le fedi matrimoniali per far fronte ai costi della guerra d'Etiopia. È ovvio che per i ricchi fu un sacrificio simbolico, ma per milioni d'italiani gli anelli erano un ricordo sacro e forse l'unico gioiello che possedevano. La madre non voleva cedere a quello che giustamente considerava un sopruso, ma prevalse la decisione del padre di ubbidire. L'autore, allora, poco più che un ragazzo, era dalla parte della madre, ma "mi pareva di intuire che era quella di mio padre la parte migliore... Credo che l'Italia che aveva consentito alle lusinghe del dittatore fosse un'Italia migliore, e oserei dire idealmente più vicina alla propria liberazione, di quanto non lo fosse prima di esser messa alla prova, e ciò proprio perché ingannata, tradita nella buona fede. La disobbedienza civile è certo un nobilissimo dovere, per chi ne ha consapevolezza, ingegno e forza. Ma l'obbedienza non è, moralmente, un valore meno alto...Chi, per debito d'onore verso la collettività, allora incarnata nel regime consegn• "alla patria" il suo povero oro, ferì la dittatura in modo più profondo, a giuoco lungo, di chi si sottrasse; poiché si era immedesimato pagando di persona, nelle ragioni che la dittatura sbandierava, lasciò ad essa, intera, la responsabilità morale: della prevaricazione, del sacrificio e anche della relativa viltà".
Sono certo che quando Pampaloni scrisse il pezzo sugli amici del corso allievi ufficiali non aveva la minima intenzione di ridicolizzarli. Ma resta il fatto che con ben diversi sentimenti ha scritto dei suoi genitori, o del sergente Mancioppi, o del caporale Pedro. Il sergente Mancioppi, la cui semplicità aveva sempre il potere di rendere inutili le parole del tenente Pampaloni. Quando gli viene comunicato che in seguito a sorteggio deve separarsi dai suoi compagni e partire per il fronte libico, il sergente Mancioppi crede d'essere stato imbrogliato e ha una breve crisi di pianto "- Mancioppi, sii un uomo, - gli dissi ad un certo punto con una voce risentita e frettolosa. Mi rispose con uno sguardo amaro come per accennarmi di esserlo persino troppo. Arrossii. Mi accadeva di nuovo, con lui, che le mie parole mi apparissero prive di senso o cariche di retorica''. Non c'è niente da fare: il semplice sguardo del sergente Mancioppi è più serio di tutte le discussioni "kantiane" sulla giustizia dei brillanti intellettuali, nonostante che alcuni di questi si siano poi battuti per le loro idee fino anche al sacrificio della vita.
La polemica antimarxista di Pampaloni, una polemica pacata ma ferma, in nome di quello che l'autore definisce "il mio ideale anglo-proudhonian-personalista", è presente in tutto il libro. Ma forse non è un caso che il momento secondo me più alto e significativo di "Fedele alle amicizie" sia interpretato dal caporale Pedro un comunista bolognese che faceva parte della 16a compagnia del Corpo Italiano di Liberazione. Quando per esigenze militari gli alti comandi decisero di smembrare la compagnia disperdendone i soldati in diversi altri corpi, ci fu una specie di ammutinamento, una rivolta che durò quattro giorni. Per risolvere la situazione, dovette venire al campo un generale che tenne ai ribelli "un discorso breve, generico, duro: tuttavia lasciò facoltà di parlare a chi avesse voluto". Per tutti parlò il caporale Pedro, "un discorso alla buona", in cui contestò con argomenti pratici le ragioni cosiddette "tecniche" per cui la compagnia avrebbe dovuto essere smembrata. E fin dicendo al generale: "Noi non amiamo la patria. E non siamo qui neppure per paura dei carabinieri. Non abbiamo più paura dei carabinieri. Per chi scappa, ormai sappiamo qual è la tariffa: pochi mesi di prigione o il campo di concentramento. Non è una tariffa cara, rispetto alla pelle. Noi siamo qui per ragioni nostre, perché ci sembra una cosa pulita tornare a casa per questa strada [cioè combattendo]. Siamo insieme da tanti anni, abbiamo avuto la stessa sorte, ci siamo riconosciuti tutti dalla stessa parte della barricata. Lei dirà che questi non sono ragionamenti militari. Ma oggi che cosa importa dei ragionamenti militari? La guerra dei ragionamenti militari è stata perduta. Siamo rimasti noi, con l'affetto, la consolazione di stare uniti. Lei vuole ributtarci indietro di cinque anni, darci altri superiori, altri compagni, altro addestramento, un altro periodo da reclute, vuole toglierci questa piccola patria che ci siamo conquistata da noi, in cui ci sembra di sentirci meno schiavi?"
Nel lontano (lontanissimo) 1946 Giacomo Noventa dedicava il suo saggio "Il grande amore in "Uomini e no" di Elio Vittorini e in altri uomini e libri "a Franco Fortini e a Geno Pampaloni, / perché ognuno accetti / di questo piccolissimo libro / la metà che l'altro rifiuta, / e mi permettano entrambi di pensare / alla loro antica e attuale discordia / come a ciò che più / li unisce a me, / e forse / - un giorno - tra loro". A parte eventuali ragioni personali, precise e evidenti sono le ragioni oggettive della discordia" che precocemente divise i due giovani discepoli di Noventa: si tratta di opposte scelte ideologiche, che non riguardano solo la politica ma investono anche l'operare letterario. In Noventa coesistevano felicemente il modello laico e liberal-socialista, che fu fatto proprio da Pampaloni, e quello religioso (potenzialmente marxista) e estremista (i poeti sono sempre degli estremisti), che agì su Fortini il quale ereditò anche dal maestro l'esigenza di pensare in grande, il fasto verbale e una certa teatralità.
Non ho fatto a caso il nome di Fortini. Leggendo "Fedele alle amicizie", mi sono tornate spesso alla mente situazioni analoghe raccontate da Fortini in "Sere in Valdossola" e altri luoghi. E sarebbe interessante confrontare come i due ufficialetti vissero e interpretarono diversamente le loro esperienze di guerra. E poi mi sono ricordato di quella dedica. La mia formazione deve molto a Fortini e nulla a Pampaloni, che praticamente ignoravo fino a pochissimi anni fa. Ma credo che se avessi conosciuto le prose di "Fedele alle mie amicizie" nel periodo in cui la mia scelta marxista era più piena, e mi capitava talvolta di essere cieco e ingiusto per settarismo, le avrei apprezzate anche allora, così come non mi sono mai vietato Orwell o Silone. Non si tratta di conciliare gli opposti, ma di comprendere le ragioni di chi parla in nome di valori diversi, soprattutto se questa diversità è schietta, non mascherata, com'è il caso di questo libro di Pampaloni. Vorrei chiudere su una nota privata. Alla rispettabile età che hanno raggiunto, non potrebbero Fortini e Pampaloni compiere il voto dell'antico maestro e metter fine a mezzo secolo di discordia? Decidersi, insomma, pur restando fedeli alle proprie idee, ad essere infedeli alle inimicizie?

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Geno Pampaloni

(Roma 1918 - Firenze 2001) critico italiano. Ha collaborato, dopo la guerra, a «Italia libera», quotidiano del Partito d’Azione, e ha poi lavorato dodici anni alla Olivetti, dove ha preso parte al movimento di «Comunità». In seguito è stato dirigente editoriale presso importanti case editrici, nonché collaboratore di vari quotidiani («Corriere della Sera», «Il Giornale», «La voce») e riviste («La fiera letteraria», «Il mondo», «L’Espresso») non solo come recensore e saggista letterario, ma anche come attento osservatore del costume politico e sociale. I suoi interessi di critico, splendidamente compendiati nel saggio Modelli ed esperienze della prosa contemporanea, compreso nel volume Il Novecento (1987) della Storia della letteratura italiana di Cecchi-Sapegno, vanno soprattutto alla letteratura...

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