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Per quali ragioni, nel contesto italiano, è venuta a mancare una festa equiparabile al 14 luglio francese? Dietro tale lacuna sta l'assenza di un evento edificante quale la presa della Bastiglia o, piuttosto, la scarsa sensibilità dimostrata dalle classi dirigenti nei confronti della dimensione rituale e simbolica della politica? Che rapporto si è venuto a creare, nei centocinquant'anni postunitari, tra "la storia del paese e la sua memoria culturale pubblica"? E che ruolo hanno svolto, al riguardo, le istituzioni? Sono questi i principali interrogativi con cui si misura Maurizio Ridolfi in un volume della collana "L'identità italiana", dedicato alle evoluzioni della politica della festa nelle "tre Italie": la liberale, la fascista e la repubblicana.
Il viaggio tra le manifestazioni-simbolo della nazione ha inizio nel secondo Ottocento; negli anni in cui, quasi a rispecchiare le conflittualità costitutive dell'unificazione, più date cominciarono a contendersi, senza riuscirvi, il diritto a rappresentare la festa nazionale: prime tra tutte, il 20 settembre, anniversario della breccia di Porta Pia, la giornata dello Statuto (prima domenica di giugno) e i genetliaci dei sovrani di casa Savoia. Se la Grande guerra consegnò al paese una nuova ricorrenza - il 4 novembre, firma dell'armistizio - fu nel corso del ventennio fascista che gli apparati simbolici conobbero il massimo dispiegamento. Al prezzo, tutt'altro che insignificante o privo di conseguenze, della fascistizzazione del culto della patria e della statalizzazione dei culti fascisti, come testimonia l'anniversario al centro delle strategie celebrative del regime: il 28 ottobre, giorno della marcia su Roma. La presa di distanza dai fattori emozionali della politica, e la necessità di sottoporre a riconsacrazione una simbologia nazionale profondamente delegittimata dal fascismo, spiegano almeno in parte le difficoltà con cui, al termine del secondo conflitto mondiale, tornarono a farsi strada i rituali commemorativi. La battaglia di memorie investì, e non ha smesso di travolgere, qualsiasi evento dotato di un potenziale unificante.
É sufficiente, per comprendere tutto ciò, soffermarsi, come viene proposto nella seconda parte del volume, sui destini delle tre date cardine del calendario festivo repubblicano. In primo luogo, sul 4 novembre, sulla sua trasformazione in "festa dell'Unità nazionale e delle Forze Armate" e sullo svuotamento di senso a cui è stato progressivamente sottoposto. In secondo luogo, sulle complesse vicende del 25 aprile, le sue alterne fortune nella stagione del centrismo, il rinnovato interesse che seppe suscitare tra i movimenti degli anni sessanta, le successive radicalizzazioni e la crisi degli anni ottanta e novanta. Ampio spazio è dedicato, in conclusione, al 2 giugno. Malgrado le debolezze che ne caratterizzarono la commemorazione fin dal 1946, il referendum con cui venne sancita la nascita della Repubblica sembra essere l'unica ricorrenza a poter aspirare, sostiene l'autore, allo statuto di immagine dell'intera nazione, in virtù del progetto di "religione civile" costantemente perseguito - in controtendenza rispetto alla tradizionale esitazione dei vertici istituzionali, come anche alle identità di parte promosse dalle forze politiche - dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
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