Scrisse Charles Darwin: "Animali con affetti, imitazione, paura, dispiacere per i morti rispetto nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte, sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo essere tutti legati in un'unica rete". E nei dieci poemetti che compongono il libro, Roberta Pelachin traccia e cuce le maglie di questa rete, che comprende tutto il Bios: lo fa con amore e sofferenza e gioia, porgendoci una chiave di lettura che si oppone all'antropocentrismo trionfante, causa e conseguenza di una razionalità dalla quale è assente il sentire, per sostituirlo con un vasto sentimento di compassione: "M'immergo nel senso Profondo / del Mondo e dell'Io". Sotto questa prospettiva, La Fiamma della (Co)Scienza, si colloca in una costellazione ormai ampia di testi impegnati a ricondurre le differenze tra l'uomo e gli altri animali alla quantità più che alla qualità e a rintracciare la parentela con i nostri compagni di viaggio. Ma, a differenza dei trattati filosofici, dei saggi scientifici e dei libelli argomentativi, questo è un libro di poesia, in cui la luce scialitica della ragione, che tutto vuole afferrare e ricondurre a solidi parametri, è temperata dall'ultrainteriorità che è in noi e che si proietta nel leopardiano Infinito, dove "pulsa e gioisce e vive e soffre" il rispecchiamento tra micro e macrocosmo. Vengono alla mente le parole di Gregory Bateson: "La pura razionalità finalizzata, senza l'aiuto di fenomeni come l'arte, la religione, il sogno e simili, è di necessità patogena e distruttrice di vita". Insomma, per conseguire la saggezza sistemica è necessario fecondare le nostre produzioni concettuali con una buona dose di attività artistica, in particolare poetica: e ciò comporta una profonda rivalutazione del corpo, della sua conoscenza tenace, profonda, inconsapevole, base laboriosa, felice e dolorosa, di ogni altra conoscenza: "Algido Io sociale, razionale, ordinario, / inumano e inumato al Corpo vivo, che ama, che soffre". Non che la Pelachin denunci o rifiuti la scienza, ma non la vuole asettica: la vuole intessuta di vita e di mondo, odorosa di corpo e di sudore: "Scienza sudata cerco appassionata./ Degna del fardello / che l'Uomo porta in sé nel Comprendere il Mondo". Leonardo Sinisgalli affermava che la casa dev'essere odorosa di gatto e di fuliggine, vi si deve udire il ronzio delle mosche; e Sinisgalli era ingegnere e poeta. Ma non si può continuare così, non si può tentare di descrivere questi poemetti, bisogna leggerli, assaporarne il ritmo, la musica, l'invenzione, vedere come le immagini scaturiscano l'una dall'altra. Non ci si deve arrestare alla superficie per seguire l'argomentazione, si deve andare in profondità: per gustare la poesia. Una poesia che suona e che danza, come suona e danza il Bios nelle sue molteplici forme, nel suo vicendevole scambio di vita e di morte, di amore e tribolazione. S'intravvede qui la strada di un possibile post-umano, non basato sulle tecnologie più avanzate, bensì (si vedano gli scritti più recenti di Roberto Marchesini) su una sorta di rivoluzione copernicana: l'accoglienza e il riconoscimento dell'altro, tra sussurro di "parole sconnesse / di nenie infantili ninnenanne / di abbracci. / Ristoro al cuore bambino". E non è regressione, anzi: è empatia, è comprensione e, come ho detto, compassione. È una visione che ricorda quella della fisica contemporanea più avanzata, che vede l'universo come una grande rete interconnessa, in cui ogni elemento interagisce con ogni altro. Poiché si parla di vita, affiora qui, accanto al pensare, il sentire, che integra e arricchisce l'asettica e scarnificata conclusione di Cartesio: "Penso e Sento, /dunque, / Sono". E ciò riprende un'affermazione di Darwin (non dimentichiamo che nel 2010 Roberta Pelachin ha pubblicato un'appassionata e commossa Lettera al grande naturalista inglese): "Senza sentire saremmo mostri innaturali". E conclude l'autrice: "Noi siamo autocoscienti, sappiamo di sapere e ciò implica responsabilità morale". Troppo spesso ignoriamo questo dovere etico. Giuseppe O. Longo
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