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recensione di Roccato, P., L'Indice 1988, n. 9
L'autore ben noto in Italia per i numerosi articoli su "Psicoterapia e Scienze Umane" e per il vasto e raccomandabile "La tecnica della psicoterapia psicoanalitica", Boringhieri, Torino 1979, ed. orig. 1973-74, pp. 665, Lit. 100.000, è uno dei pochi psicoanalisti americani che patrocinano il rigore metodologico nella condotta professionale dello psicoterapeuta come dello psicoanalista, insistendo sull'importanza della relazione attuale fra terapeuta e paziente e sul mantenimento scrupoloso del 'setting', inteso come assetto mentale del terapeuta, oltre che come assetto spaziale, temporale e di regole chiare, semplici, univoche, stabili ed esplicite entro cui si dipana la relazione terapeutica. Punto di partenza è l'osservazione che il paziente, prima di ogni altra cosa, con le proprie associazioni cerca di dare una risposta - adattiva - all'ambiente umano in cui e inserito. Risponde, cioè, prima di tutto, agli interventi del terapeuta, presentando "in codice", "per derivati", la propria percezione, conscia e inconscia, di come il terapeuta si pone nei suoi confronti. Di percezioni, dunque, e non di fantasie, si tratta; e di indicazioni, sempre "in codice", date al terapeuta perché sia più adeguato nella cura. Il paziente è allora, come evidenziato da Searles, il miglior alleato del terapeuta, sempre che questi, stabilita e mantenuta la "cornice" della relazione, voglia, e sappia, ascoltarlo, decodificandone i messaggi. Ma come spiegare i benefici (innegabili, anche se transitori e seguiti spesso da peggioramenti) che i pazienti ricavano da terapie selvagge assolutamente folli, dove tutto viene perseguito (sadismo ed erotizzazione soprattutto), tranne la consapevolezza di se nel divenire relazionale? È forse la follia del terapeuta, occulta o manifesta, un fattore di cura? L'Autore dimostra di sì, ma solo nel senso del transitorio sollievo procurato al paziente dal poter nascondere ai propri occhi la propria follia, utilizzando i molti modi (ampiamente esemplificati) che la follia del terapeuta gli consente: cosa ben diversa da una reale terapia, che è conoscere ed affrontare la propria follia. Un modo sconcertante di difesa, ben noto agli addetti ai lavori, è l'idealizzazione: più il terapeuta è folle e incapace con i suoi pazienti, e più viene da loro ammirato e reclamizzato. Pregevole, chiarissimo, perfino elementare, importante punto di partenza per la riflessione, ha il difetto di vedere gli interventi folli del terapeuta come puri dati cui il paziente reagisce: non approfondisce i concetti di collusione come dinamica bidirezionale, di identificazione proiettiva (inconscia) e di induzione reciproca (conscia), che potrebbero chiarire meglio il significato relazionale del loro insorgere. Peccato per certe ripetizioni e per l'impianto globale mal congegnato (espone il fondamento della propria teoria sull'interazione terapeutica soltanto nel Cap. 14, a p. 188!). Ma il più grave difetto del libro, del resto inevitabile, è che la necessità di leggerlo è inversamente proporzionale alla probabilità di leggerlo: più squinternato è il terapeuta e meno è probabile che prenda in considerazione quest'opera, che così da vicino lo riguarda. Ma, considerata la follia che ogni terapeuta, più o meno evitabilmente, mette in ballo nelle psicoterapie, il libro si raccomanda anche a quelli che non si ritengono del tutto pazzi.
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