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Di fronte al testo di un padre della sociologia non si può non avere quel pizzico di timore che magari è del tutto assente quando si commentano fatiche letterarie di altri autori, più o meni noti. Non è stato facile comprendere l’innesto dei pensieri di Ferrarotti, risalenti agli anni ottanta, con l’humus socioculturale del periodo. Eppure, dopo alcune necessarie riletture, tutto diventa molto chiaro e oltremodo interessante: le spigolature, i brevi commenti, come graffiti, generano un mare di riflessioni, soprattutto se si tenta inevitabilmente il raffronto con quanto, nel frattempo, è avvenuto nei decenni a seguire. E allora, appare illuminata l’intuizione del sociologo nei confronti della narrativa: per Ferrarotti, la narrativa del futuro sarebbe stata necessariamente multidialogica, aperta a stili diversi e a molteplici contaminazioni. Necessariamente, perché nessuno si sarebbe più sentito di esprimere un giudizio complessivo sulla società, come invece era successo nelle epoche precedenti. Penso che la maggior parte dei letterati e degli autori abbia, anche ora, un viscerale timore di esprimere giudizi: i più preferiscono rifugiarsi in vuoti e rassicuranti esercizi di stile, magari confidando in successi di nicchia più o meno possibili, piuttosto che impegnarsi nell’ars interpretandi, poco consona al conformismo e al vuoto disumano imperante. Anche sul futuro dei libri, Ferrarrotti sembra avere visto giusto: il mercato dell’editoria, tranne in poche e coraggiose eccezioni, è governato ferocemente dalle leggi di un’industria culturale che asseconda le sirene e le mode del momento. E così, il libro di successo - a mio avviso, rigorosamente da evitare nell’acquisto e nella lettura - è un’ulteriore esemplificazione della totale rinuncia alla cultura che preconizza, che rompe gli schemi, che anticipa, che interpreta il cambiamento prossimo a manifestarsi.
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