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"Perché la mente insiste a cercare il male?"; pare un interrogativo giobbesco, quello posto in introibo all'ultimo libro di poesia di Cesare Viviani, un interrogativo appena un poco più intellettualizzato di quello classico, e che invece apparirà ben presto il suo rovescio, una risposta implicita su un altro piano, totalmente dislocato rispetto alla tradizionale teodicea. Ed ecco la risposta, subito marcata in corsivo nel testo liminare: "Ora per evitare il male / bisogna non sentire il dolore, pensare / che il male è salvezza da un male maggiore. / Pensare che il male è assoluzione, / e non condanna: / è manna". Solo le restanti 183 pagine possono illuminare un simile assunto. E dico le pagine e non dico il numero dei versi o dei componimenti, perché si tratta di un unico poema - pur diviso in trentasei parti - di tipo narrativo-asseverativo che dipana, con intensità che mai cede, il lungo filo della "forma della vita".
Narrazione, dunque, con versi variabili, lunghi in genere, che l'autore garantisce come "endecasillabi eccedenti" (ma anche, si aggiunga, eventualmente ortometrici, magari con accento di quinta per giunta debole: "gli equilibri della misure umane") o frutto dell'"unione di due versi tradizionali" che andrebbero ricontrollati e che comunque la competenza metrica media attuale, che non è neppure più quella di cui parlava Contini, fatica a sentire (meglio si sentono le rime sparse, spesso grammaticali). Tanto più che ciò che prende per mano il lettore è, in superficie prima, in profondo poi, la vena affabulatoria che sospinge in scena vari personaggi di solito di matrice e mestiere intellettuale: "C'è uno scrittore, amico di Fontana, / che ha uno sguardo sconvolgente e una voracità / disumana, influente: guarda la vita degli altri, / di tutti gli altri, come una povera recita".
L'intero cast di personaggi, di solito affetti dai mali di stagione storica (depressione, iperattivismo compensatorio, angoscia di ritorno - e anche di andata -, senso del vuoto e del non senso, "la pentola dell'ansia", nodi e groppi tutti che l'autore conosce a puntino per via della professione di psicoanalista, e la psicoanalisi ogni tanto qui affiora a portare acqua al mulino del generatore centrale: la contrapposizione del Male e del Parziale all'Amore e al Tutto, con risoluzione semplice di quelli in questi), recita ora in "a solo", ora in contrappunto a più voci, le varie scene della vita psicosociale e al coro spetta l'immediato ripiegamento riflessivo, gnomico fino a sfiorare il lapidario, mentre altre voci si insinuano, voci anonime, portatrici di luoghi comuni (non sono anch'essi "forma della vita" ricevibile, accoglibile?), e la voce stessa dell'autore, a volte nettamente scandita, a volte nascosta: "In quel giorno [Dossi] si ribadiva / che il vero miracolo non fosse la guarigione / quanto la conversione. Avviene / nell'intimo del cuore e non è / materia da testimonianza televisiva" (la polemica sull'attualità mediatica o sulla guerra o sulla new economy affiora qua e là a sorpresa, inaspettata e un poco incongrua nel flusso del discorso sapienziale, e "metafisico"). Per cui versi che sentenziano così: "Il nitore di un gesto, la sua luce / ripagano qualunque attesa (...) Una carezza, / un contatto colmano il cuore più di tutte / le volontà e le frenesie di fare", non sai bene da quale "fondo" arrivino. Eppure non sono dette per controcanto ironico del banale.
L'ironia è bandita e Viviani è abile nel miscelare insieme avvenimenti contemporanei e definizioni del mondo caricandoli di valore e di forza immettendoli ogni volta nel quadro dell'assunto generale per una continua dimostrazione esemplare virtualmente illimitata. Assunto che è il seguente: all'"Indecifrabile", all'"Inqualificabile" della vita occorre, se non arrendersi, abbandonarsi, così come al male, in una coincidenza quasi perfetta tra verità ed etica. "Si avvicina all'immutabile, al vero, / chi accoglie l'offesa senza contrastarla (...) per conoscere il bosco bisogna abitarlo, / arrendersi alla sua vita". E non è questione, ovvio, dell'"altra guancia", ma di verità ontologica che affianca senza confondervisi il linguaggio religioso. Su tutto, dono e grazia unica è infatti la Creazione, la "manifestazione / più alta dell'amore del Padre". L'"Incarnazione", il riscatto dal peccato è già una variante contraddittoria, collocabile nei paraggi dell'inaccettabile, perché l'Incarnazione presuppone la Storia, il fare. E il fare, al limite, è negativo comunque: "Non i buoni propositi aiutano/ a cercare il Creatore, ma il cieco amore: / che è una parola, o meglio la pronuncia / di una parola, o meglio la pronuncia sola. / Non è dato altro modo per avvicinarsi / all'Inqualificabile, / all'Insondabile, / all'Impensabile".
E invece non ci sono altre verità o terapie, neppure psicoanalitiche; verità e rimedio della guerra di infelicità che è la vita, e la lotta di esistenze degli uomini, consistono nella rinuncia al fare e all'azione mirata. Ecco allora che l'originario quesito sul male non si affronta, non si risolve: si dissolve. Ciò che in fondo predica Viviani nella sua tensione quasi mistica (una mistica ottenuta attraverso l'ascesi decostruzionistica: anche diegeticamente ogni storia, ogni personaggio è la polvere di se stesso, omuncolo della web generation con attrazioni neojacoponiche, ma stilisticamente alla ricerca di un linguaggio e di parabole alternativi a quelli religiosi) è una mutazione antropologica. "Distruggere / ciò che in altezza è stato fatto, pensato": Ground Zero della fabbrica storico-progressiva della Torre di Babele. L'homo faber, l'homo oeconomicus, l'uomo esploratore e cacciatore, l'homo philosophus, l'homo indefessamente interpres, cedono di fronte all'istanza dell'Assoluto immutabile e si omologano al gesto unico e definitivo di un Creatore di fronte al quale è inutile cercare o immaginare altra vita che quella che si ha.
E le storie singole? Le vicende? La comunità? Tutte nel calderone? Certo, anche a una prima lettura e dopo aver indicato al lettore almeno gli evidenti legami di questo straordinario poemetto con il Silenzio dell'universo (altro titolo non da poco: 2000) da cui discende, non sfuggirà che nell'ultimo Viviani l'appello a una "comunità" si fa oggettivamente drammatico proprio nel momento in cui è esaltata l'indistinzione nell'Assoluto e nell'Amore, totalmente astorici. Quale base per una comunità se non la distinzione, la scelta?, si potrebbe obiettare. Ma quella di Viviani è una Verità assoluta che nel momento in cui viene riconosciuta come tale (e le vicende personali di ogni lettore che possa identificarsi con le biografie di uno dei tanti personaggi e, suo malgrado, fare i conti con il dilemma della modificabilità o accettabilità del mondo, insomma dell'azione coatta, per sopravvivenza fisica o psichica) diviene intollerabile come ogni Verità. O con me o contro di me. Ed è ciò che ci travolge, ci sconcerta, ci sgomenta con la forza eccezionale e altrettanto paradossale di una parola poetica, o meglio "la pronuncia sola", cui è affidato un compito altrettanto grande e supremo, e che travolge, con i nostri pensieri, lo squallore e il delinquenziale in cui è caduto e cade il linguaggio nel quotidiano, pur miracolosamente accogliendo pur esso.
Giorgio Bertone
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