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Daniele Ventre (Napoli, 1974), studioso e traduttore di testi greci e latini, dedica trenta poesie calibratissime nella metrica ed elegantemente rispettose dello stile classico ("scandito al battito di metronomo delle pentapodie giambiche") alla meditazione del tema più collaudato della nostra tradizione letteraria: lo scorrere inarrestabile del tempo, e, con immagini che rimandano compostamente al cinema bergmaniano, alla "vecchia partita fra il Cavaliere e la Morte". Sebbene quest'ultima non sia mai esplicitamente citata, i termini più ricorrenti in queste composizioni sono proprio quelli che ad essa alludono: orizzonte, buio, vuoto, nulla, ombra, avversario. Il poeta affronta questa antica battaglia in una sorta di duello da sempre destinato alla sconfitta (altre espressioni riaffioranti sono: agguato, fuga, incontro, trincea, scacco, rifiuto...), in cui la lotta appare comunque impari e crudele: "Così ripieghi nello sguardo vuoto/ della sconfitta e l'anomia del mondo/ si mostra con la danza delle fughe/ dispersa all'eco spenta delle voci". Un topos di queste poesie è rappresentato dalla visione ossessiva dello specchio, in cui chi scrive affonda impietoso lo sguardo, ad osservare l'avanzare dei segni dell'età ("l'incrinarsi della linea in rughe/ senza espressione"), dal cui rovinoso procedere non salva né l'incanto dell'amore ("E' appena un nebuloso abbandonarsi/ al desiderio breve"), né l'osservazione della natura matrigna. A stilemi leopardiani ("E così il giorno/ e il tempo e il mondo fugge") ed echi evidentemente montaliani (cocci aguzzi, falena, balugina, barbaglio, gorgo..) corrisponde una ricerca non peregrina di vocaboli desueti (abbacinata, scarmiglia, diacci, inopinata, serico, anomia, rena...), che contribuisce a velare tutta la raccolta in un'atmosfera congelata, astrale: a cui violentemente si oppone l'immagine sferzante della copertina.
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