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Nei giorni che scandiscono gli echi di una memoria pubblica che da molte parti viene giustamente omaggiata come merita, non fa male riaprire questo libro e rileggerne alcuni passi. E' una galleria di "coscienze ebraiche" analizzata da una donna eccezionale, per me uno dei grandi geni del Novecento intero. Solo le pagine su Walter Benjamin valgono un tributo assoluto: "Fama, l'ambitissima dea, ha molti volti e si presenta sotto le più diverse forme: dalla notorietà di una storia da copertina della durata di una settimana fino allo splendore di un nome duraturo. La fama postuma è un dono raro e tra i meno ambiti, anche se è meno casuale e spesso più solida delle altre poiché solo raramente si fonda sul semplice fatto commerciale". E' il saggio più corposo, quello in cui la stima e l'affetto verso il grande autore berlinese lasciano liberare alla Arendt lo stesso motto di Cicerone: "Si vivi vicissent qui morte vicerunt", e cioè "come sarebbe stato diverso se fossero stati vittoriosi in vita coloro che hanno vinto in morte". Poi arriva l'eco di Brecht, e nella sua figura l'autrice ci ricorda che "contiamo e facciamo affidamento sui poeti nella vita pubblica e privata", e Chaplin, definito "il sospettato", colui cioè che sfugge ai controlli sociali perché non si sa cosa faccia, il disadattato romantico, spiantato, generoso e pericoloso insieme, illeggibile. E' il tema che apre il volume in verità, il centro del libro nei vari tornanti delle sue biografie: lo Schlemihl, ossia l'uomo sfortunato mezzo sciocco o puro d'animo, non si sa se stupido agli occhi della gente o angelico per pochissimi, traviato o santo. E allora ci si alza fino alle vette di Kafka e ai suoi ignari personaggi condannati, estranei sociali, anonime figure punite senza motivo in alcuni atroci racconti, vere cantine dell'io più nascosto. E' in questo e in tantissimo altro la preziosa necessità che trasmette questo libro, una poetica del perdente che insegna e lascia traccia come pochissimi altri.
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