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Geopolitica del XXI secolo
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Geopolitica del XXI secolo - Carlo Jean - copertina
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Geopolitica del XXI secolo

Descrizione


Tra le vittime dell'11 settembre debbono essere annoverate le teorie geopolitiche che hanno dominato dopo la fine della guerra fredda: dal 'nuovo ordine mondiale' alla 'fine della storia'; dalla geopolitica alla geoeconomia; dalla morte dello Stato allo Stato postmoderno; dallo 'scontro di civiltà' al 'nuovo medioevo'. Tutte queste semplificazioni, ottimistiche o pessimistiche che siano, hanno lasciato spazio a una riflessione più moderata. Troppi sono gli attori e i fattori in gioco. Troppo elevata è la rapidità del cambiamento. Jean analizza insieme i fattori geografici e le risorse naturali, le scelte politiche e i fattori culturali, gli aspetti economici e tecnologici del panorama contemporaneo e gli equilibri in gioco.
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Dettagli

2004
20 maggio 2004
X-188 p., Brossura
9788842072973

Valutazioni e recensioni

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tommasino malthus
Recensioni: 5/5

Incredibile come il libro rappresenti una tappa fondamentale per il "personale sapere geopolitico" e l'autore invece rappresenti una "maschera che dice e non dice"...esita,pensa,ma non è pronto a sputare il rospo su certi argomenti (9/11 docet!)evidentemente troppo recenti. Da studiare con certosina attenzione. Profeta.

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Voce della critica

È questo un libro di sicuro interesse, che si cimenta con l'impresa ormai titanica di ragionare sugli sviluppi presenti e futuri della politica mondiale. Di impianto tipicamente "realista", fortemente influenzato dalle tesi formulate in questi ultimi anni soprattutto da Kissinger, Brzezinski e Nye, esso è costruito attorno a cinque grandi argomenti, che proverò dapprima a enunciare in modo sintetico e poi a sottoporre a qualche obiezione di sostanza.

Il primo argomento, che costituisce in verità la premessa più ampia su cui regge l'intero ragionamento del generale Jean, è che la "geopolitica mondiale" è sempre determinata "dagli interessi, dalle intenzioni e dai rapporti di forza delle maggiori potenze", le quali agiscono (o quanto meno tendono ad agire, salvo cacciarsi in un mare di guai) in base alle ferree "ragioni del realismo", vale a dire alle "eterne ragioni del potere e dell'interesse". Questo principio valeva per il sistema westfaliano (1648) e, naturalmente, viennese (1814). Ha continuato a valere nell'epoca della contrapposizione Usa-Urss. E ha mantenuto la sua validità anche nel mondo postbipolare. Il quale, secondo Jean, è sì un mondo complesso e imprevedibile, sulla cui scena si muovono i più diversi soggetti statali e non (da ultimo soprattutto il terrorismo internazionale). E in cui è in atto un generalizzato e pericoloso "ritorno delle religioni nella politica". Ma è anche, e in primo luogo, un mondo dominato da great powers che, pur con qualche eccezione, tendono ad agire secondo le fredde logiche del realismo politico.

Nell'era postbipolare tuttavia - è il secondo argomento - i rapporti tra le "grandi potenze" hanno assunto una configurazione inedita. La fine del bipolarismo, infatti, non ha segnato un ritorno alle dinamiche multipolari del modello Westfalia (nemmeno nella variante culturale dello "scontro delle civiltà"). E non ha dato origine, come pretendono i teorici dell'anarchia globale, a un "nuovo medioevo" delle relazioni internazionali. L'era postbipolare, al contrario, ha prodotto un sistema saldamente "unipolare" o, al limite, secondo la definizione di Kissinger (e di Huntington), "uni-multipolare". Un sistema, cioè, fondato su un'incolmabile sproporzione tra l'iperpotenza globale degli Stati Uniti e la potenza nella migliore delle ipotesi solo regionale delle altre great powers: di un'Europa divisa, di una Russia in evidente declino, di una Cina in ascesa, ma ancora ben lontana dal divenire un competitore globale degli Stati Uniti, di un'India in grande espansione, ma afflitta da gravissimi problemi interni, di un Giappone che ha perso parte del suo peso economico internazionale, e di un mondo islamico fortemente lacerato, instabile e impotente. In una situazione di questo genere, secondo Jean, nei prossimi decenni gli Stati Uniti non potranno essere sfidati da nessuna potenza o coalizione di potenze. E, con buona pace dei più recenti teorici del "declino", della "deriva", o addirittura della "fine" dell'impero americano (cfr. "L'Indice", 2004, n. 7/8), rimarranno fermamente al timone della politica mondiale.

Rispetto a questi nuovi assetti - è il terzo argomento - i megattentati dell'11 settembre hanno esercitato un ruolo relativo. Essi hanno avuto effetti significativi sulle percezioni e gli atteggiamenti dell'amministrazione e dell'opinione pubblica americana, facendo tra l'altro prevalere, almeno per il momento, il "fondamentalismo" dei neocons, che Jean critica aspramente. Hanno inoltre sollecitato, dopo le fantasie postmoderniste degli anni novanta, un'accresciuta domanda di stato in quanto produttore di sicurezza di fronte alle minacce del terrorismo globale e in quanto regolatore dell'economia di fronte agli effetti perversi del turbocapitalismo. E hanno dato, infine, dopo il trionfo solo apparente della "geoeconomia", un forte impulso a un generale riallineamento geopolitico delle grandi potenze. Sul più lungo periodo, tuttavia, quegli eventi non hanno mutato, ma più semplicemente accelerato, sviluppi già avviati dalla caduta dei comunismi e dalla fine della divisione in blocchi. Con essi, insomma, si sarebbe conclusa la transizione dal mondo bipolare a un mondo sfacciatamente e "brutalmente" unipolare. Una transizione - scrive Jean - dominata da fragili verità geopolitiche, ormai spazzate via dalla piena manifestazione dall'iperpotenza americana.

Se l'unipolarismo è il dato essenziale delle prospettive presenti e future della geopolitica mondiale - è il quarto argomento - questo non significa che gli Stati Uniti debbano agire in modo necessariamente "unilaterale", anche se essi, soprattutto dopo l'11 settembre, hanno mostrato una forte propensione in questo senso. Sembra piuttosto prevalere quello che Jean definisce, contrapponendolo al tradizionale "multilateralismo istituzionale", un "multilateralismo à la carte ", dettato per un verso dalla volontà degli Stati Uniti di garantire l'intangibilità dei propri interessi globali, e per un altro verso dall'elevata imprevedibilità del mondo postbipolare. Questo multilateralismo à la carte, ripete Jean, altro non è, in effetti, che una forma di unilateralismo. Pur nella sua "brutalità", tuttavia, esso permette agli Stati Uniti di diminuire i costi dell'egemonia e di legittimarla, e ai loro alleati di esercitare un qualche peso sulle decisioni della Casa bianca. Non è molto, è sottinteso, se ci si pone nella prospettiva di realizzare il progetto kantiano della pace perpetua; è invece moltissimo se, con Jean, si riconosce "realisticamente" la realtà unipolare del mondo attuale e la logica eterna delle grandi potenze.

Su questo multilateralismo à la carte si fonda in ultima analisi - ed è il quinto argomento - la ricetta di Jean (e di Kissinger) per la stabilità mondiale. Essa prevede un "sistema sostanzialmente egemonico, a livello globale, centrato sugli Stati Uniti, che manterrebbero l'equilibrio avvalendosi di alleanze regionali". In questo quadro l'Onu, già di per sé impotente, dovrebbe perdere ulteriormente la sua rilevanza a favore di organizzazioni regionali in cui dovrebbero essere sempre presenti gli Stati Uniti. La stessa Nato, ad esempio, potrebbe trasformarsi in una di queste organizzazioni regionali e agire nel caso, come nel Kosovo, senza mandato del Consiglio di sicurezza. In questo quadro, soprattutto, dovrebbe rinsaldarsi quel "patto transatlantico" tra Europa e Stati Uniti che si è spezzato in occasione della crisi irachena e da cui dipendono invece gli stessi assetti futuri della "geopolitica del XXI secolo".

Attorno a questi cinque fondamentali argomenti Jean svolge un'ampia e articolata analisi, toccando tutte le grandi questioni del dibattito internazionalistico più recente, compresi i due temi cruciali del terrorismo globale e della "guerra preventiva". Il risultato è - lo ripetiamo - un libro di grande interesse, soprattutto nei capitoli dedicati alla politica delle grandi potenze.

Si tratta però, al tempo stesso, di un libro che non convince. E non tanto per le tesi dichiaratamente politically uncorrect circa il multilateralismo à la carte e il ruolo delle Nazioni Unite, o per la sua ricetta di un nuovo ordine mondiale fondato sul principio della forza piuttosto che su quello del diritto. Questo repertorio di argomenti "spiacevoli" ha alle spalle una lunga e solida tradizione di pensiero. Ciò che non convince è l'idea che il paradigma in sé autorevole della power politics possa essere applicato alle condizioni del mondo attuale. A un mondo che forse non è semplicemente "unipolare", e per il resto "imprevedibile", ma che piuttosto sembra ormai essere sì per molti versi unipolare, ma, al tempo stesso, in gran parte, "fuori controllo", come sosteneva qualche anno addietro, in buona e non allegra compagnia, Brzezinski. A un mondo che forse non sta assistendo a una "riscoperta dello Stato", ma, in modo prevalente, al suo spappolamento per l'effetto congiunto della globalizzazione e di incontrollabili fenomeni di frammentazione. A un mondo in cui sta forse mutando la natura stessa della guerra, che non è più soltanto - come pure Jean riconosce - una prerogativa degli stati sovrani, ma di forze transnazionali, e/o di gruppi privati, economici e politici, in grado di dotarsi dei più terribili strumenti di distruzione di massa. A un mondo, insomma, i cui attori fondamentali sembrerebbero non identificarsi semplicemente con un concetto ottocentesco come le "grandi potenze".

Se le cose stessero come afferma il generale Jean, potremmo dormire sonni più tranquilli: il terrorismo globale sarebbe soltanto un fastidioso moscerino; la "guerra preventiva", da parte di un'amministrazione di dilettanti, solo l'esplicita e incauta dichiarazione di un principio valido da sempre ("predicare la pace e picchiare sodo quando ritenuto necessario"); e l'attuale crisi irachena un semplice processo di peacebuilding assimilabile alle "pacificazioni che seguivano le conquiste coloniali". Un processo - scrive il generale - che dovrebbe essere affidato non a "eserciti di laureati e signorine", ma a eserciti di "avanzi di galera", come lo erano quelli delle potenze coloniali di un tempo.

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