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recensione di Valle, R., L'Indice 1998, n. 8
La controversia storico-politica sui termini "giacobino" e "giacobinismo", ormai bisecolare, ha oscillato tra anatema e ammirazione, confermando la "tremenda ambiguità" di un episodio della Rivoluzione Francese elevato ad archetipo del potere rivoluzionario. Da questa controversia sono emersi due orientamenti storiografici e ideologici: quello che ha alimentato il mito del radicalismo e dell'incorruttibilità giacobina, estendendone il retaggio nello spazio e nel tempo fino a creare una immaginaria continuità rivoluzionaria tra giacobinismo e bolscevismo, una sorta di circolo virtuoso nel quale si realizza il compimento di quella rivoluzione "fino in fondo" (l'espressione è di Marx) interrotta dal Termidoro; e quello della "vulgata antigiacobina" che pretende di escludere, come un corpo estraneo, i giacobini dalla rivoluzione francese. Entrambi questi orientamenti vengono ampiamente messi in discussione e criticati in "I giacobini e il giacobinismo", un lavoro di approfondimento e di sintesi realizzato per la "Biblioteca Essenziale" Laterza.
Anche quest'ultimo lavoro attesta l'originalità di una linea di ricerca inaugurata da Vovelle (storico formatosi alla scuola di Ernest Labrousse e professore emerito della Sorbona, per un decennio direttore dell'Institut d'Histoire de la Révolution Française) con "Piété baroque et déchristianisation* (1973) e che ha caratterizzato anche i suoi più recenti studi sulla mentalità rivoluzionaria alla fine del XVIII secolo. Proprio a partire dai risultati di queste ricerche, Vovelle, anzitutto, ricolloca il fenomeno giacobino nella sua epoca, inficiando quello stereotipo che vede nel giacobinismo una mentalità immutabile, quella dell'attivismo rivoluzionario delle élite ideologizzate che, in diverse epoche e in diverse latitudini, hanno preteso di esercitare, secondo la definizione di Furet, "il magistero di ortodossia".
Questa definizione di Furet, insieme a quella di Talmon che identifica nell'esperienza giacobina una delle scaturigini del totalitarismo, rappresenta per Vovelle quel grado zero del processo di demolizione del giacobinismo dal quale occorre ripartire per riordinare la materia. A tal fine, egli opera una distinzione tra "giacobinismo storico", inquadrato nel contesto del "decennio rivoluzionario", e "giacobinismo trans-storico", quale "trasmutazione" di un'idea-forza che ha avuto una propria vita autonoma e che, nelle sue metamorfosi, è stata rimodellata al fuoco delle controversie politico-ideologiche dell'Ottocento e del Novecento. Sulla base di questa distinzione, Vovelle intende, in primo luogo, "identificare l'originalità di un'esperienza", così come si è presentata sulla scena della storia nell'arco del decennio rivoluzionario. Nell'esaminare una storia di dieci anni (1789-1799), lo storico francese si pone da un punto di vista "sociologico" e da questa socio-storiografia emerge l'immagine del giacobinismo come "continua elaborazione", in parte condizionata dalla contingenza storica, e non come un monolitico apparato ideocratico o una macchina terroristica frutto di un complotto di forze oscure volto a stabilire un dominio assoluto sulla società.
Dalla fondazione del Club bretone all'anno II della Rivoluzione (il 1793-94, anno dell'egemonia giacobina), il giacobinismo subisce alcune mutazioni sostanziali. Il club di deputati diventa un club di militanti, autonomo dall'Assemblea legislativa e cooperante con il movimento popolare (senza per questo diventare il prototipo dell'avanguardia rivoluzionaria). Non può essere confuso con la Convenzione montagnarda e con il Comitato di salute pubblica, che a esso si sovrappongono. Nell'analizzare il "sistema" giacobino, Vovelle prende atto di queste sovrapposizioni, che modificano l'aspetto originario del club giacobino, e si pone come scopo primario l'individuazione dei caratteri del giacobinismo "alla francese".
In primo luogo, il giacobinismo non è il frutto di un complotto massonico, ma deriva da forme di "sociabilità" presenti nella Francia dell'Ancien Régime: con i giacobini queste tradizioni di sociabilità passarono dalla sfera sociale e culturale a quella politica, quale sperimentazione "a caldo" di forme "inedite di democrazia". In secondo luogo, la "chiave di volta" della strategia giacobina è l'alleanza città-campagna che, talvolta, vede maggioritaria la componente contadina. In terzo luogo, dal rapporto tra ideologia e prassi rivoluzionaria emerge che, al di là delle estremizzazioni teoriche e dell'istituzionalizzazione del terrore (sottratto al furore ultrarivoluzionario), il giacobinismo si colloca in un orizzonte etico-politico caratterizzandosi come una religione civile che si fonda sul culto della patria (pur non escludendo la fraternizzazione cosmopolita), quale strenua difesa dell'unità e dell'indivisibilità della repubblica, su un egualitarismo "molto temperato" e sulla fraternità intesa come solidarietà attiva fra i membri della società. La dittatura, incarnata dal capo carismatico Robespierre, è il "rovescio" e l'eccezione del difficile apprendistato della democrazia, intesa come "unità del popolo" sovrano e non come pluralismo e rappresentanza.
Secondo Vovelle, l'originalità del giacobinismo francese consiste nella sua capacità di mobilitazione e "nell'imponenza dell'impegno collettivo che ha suscitato", e non nella dittatura di un'élite esagitata ed esagerata: tale impegno, scaturito da un compromesso sociale, ha caratterizzato una "parentesi necessaria" alla sopravvivenza della rivoluzione stessa. I giacobini francesi hanno dato vita a un'esperienza "singolare ed esemplare" non omologabile al cosiddetto giacobinismo europeo, il quale, al contrario di quello francese, è espressione di avanguardie rivoluzionarie che, a seconda delle circostanze politiche e nazionali, hanno assunto diverse connotazioni, soprattutto cospirative e patriottiche (per esempio in Italia) o di esportazione (come nel caso di alcune repubbliche sorelle).
Sul piano trans-storico, Vovelle non attribuisce molta importanza al giacobinismo agiografico e "autoproclamato" di marca radical-borghese, e mette invece in luce le aporie di quel "giacobinismo al servizio della rivoluzione" che ha trovato espressione in Marx, Lenin e Gramsci, e che ha posto in primo piano, riattualizzandola, la questione della dittatura rivoluzionaria e dell'egemonia del partito rivoluzionario, che si riassume nell'ossimoro di Robespierre "il dispotismo della libertà".
Nel 1848, per Marx, il giacobino subisce una metamorfosi e diventa il comunista che non aspira a fare una rivoluzione in "orpelli" giacobini (pessima replica della storia), ma a trarre dall'esperienza dell'anno II il modello di una "dittatura centralizzata". Quanto all'analogia "sulfurea" tra giacobinismo e bolscevismo, stabilita da Mathiez nel 1920, essa non va considerata per il suo valore storiografico, ma come sintomo di un'epoca nella quale si riapre, nelle vesti del leninismo, la questione della rivoluzione. In realtà, l'idea del partito dei rivoluzionari di professione Lenin non l'ha tratta dall'esperienza francese, ma dalla tradizione blanquistico-giacobina del populismo russo e dai catechismi nichilistico-rivoluzionari che circolavano in Russia nella seconda metà dell'Ottocento.
L'analogia tra bolscevismo e giacobinismo è servita anche come argomento polemico a coloro che, come Furet, dopo il 1989 hanno decretato la simultanea fine dell'illusione comunista e di tutte le "piccole oligarchie dell'attivismo" che hanno occupato indebitamente lo spazio riservato alla volontà popolare. In tal modo si è esaurita la parabola trans-storica del giacobinismo, che costituisce un capitolo a sé di una storia apocrifa che ha voluto mantenere viva l'idea di una continuità rivoluzionaria immaginaria e stabilita a posteriori. La ricca polisemia del termine "giacobino" non è dunque altro che il frutto delle attribuzioni ideologiche sorte nell'arco di due secoli e si riduce, perciò, alla sola dimensione del giacobinismo storico, che, come sottolinea giustamente Vovelle, è un "cantiere aperto" di studi in corso, senza ambizioni diverse da quelle scientifiche e ormai liberato della pesante eredità postuma del giacobinismo trans-storico con i suoi orpelli ideologici e con la sua storia in maschera.
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