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Giannozzo, briccone romantico, viene preso dal desiderio di un’ascensione in mongolfiera al solo udire la parola revenant. «Qualcuno la pronunciò per caso davanti a me: io immaginai la gioia ineffabile di essere un fantasma». Spiegate le «azotiche ali» della sua mongolfiera, munito di un piccolo corno da postiglione e di un binocolo da guerra, Giannozzo si libra sui minuscoli Stati della Germania alla fine del Settecento: le città gli appaiono come «banchi di ostriche», abitate da figurine di piombo, semplici comparse, «provinciali senza spirito né religione». Con improvvise incursioni l’aeronauta getta lo scompiglio in quelle terre: libera pipistrelli dalle sue tasche durante un pranzo di Corte, spia incontri amorosi dall’occhio di una rotonda, esorta beffardamente alla coerenza gli abitanti di una lugubre cittadina di esemplare produttività, perché innalzino lo Stato «al punto da diventare una vera e propria casa di pena e di lavoro» – e poi risale sulla sua navicella. È l’eterno trickster, il «briccone divino», che qui si reincarna in Giannozzo, cosmico voyeur di tutti i «teatri della vita», patinato di ironia romantica. Ma l’età moderna non tollera a lungo tali agenti del disordine mercuriale, che obbediscono a un solo precetto: «Lo scherzo è inesauribile, la serietà no». E l’euforia del volo si mescola fin dall’inizio con il presagio pungente della catastrofe.
Jean Paul, come Sterne, è un «guardiano della soglia», che segnala l’ingresso a tutta la letteratura moderna. La sua prosa, colma di estri geniali, straripante di metafore, è un preludio a tutte le audacie che verranno – e il Giannozzo, nella perfetta misura del suo incantevole farneticare, potrebbe esserne il simbolo.
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Ah, che piacere satireggiare, e dire il torto dell’umanità: sempre così uguale! Volgare, servile, prepotente quanto è potente e vile all’inverosimile quand’è miserabile. Ascendere ai cieli del mondo nella ricorrenza della discesa dello Spirito Santo: che gusto, sorvolare le terre e i giardini e tirare pietre ai giudici e pisciare sui preti e salire su un patibolo ma solo per declamare il carnevale del mondo che è carnevale tutto l’anno, poi scampare! ma a che pro? La natura! anche tu natura! per bella che sei conduci pur sempre al tramonto, e gli amori, gli splendenti amori! gli idillici amori! gli spontanei amori fortuna loro sgomberi di quel malanno che i medici prescrivono come castità: anche per voi c’è il tramonto, cosa credete? che piacere dire male del male e saltellare, svolazzare, e… e… e sottrarre al gran calderone delle vostra indifferenza e tracotanza le frattaglie gentili del mio dolore, del mio disagio, del mio essere fuori luogo anche in cielo: satireggiare il mio satireggiare vi sembra poco? ferire le mie ferite? impazzire perché capire il mondo non me lo rende affatto più abitabile o godibile.. satireggiare sul mio satireggiare, vedere la bellezza e la nascita e la morte e il giusto e lo sbagliato e il bello e il buono: vedere tutto questo, per cosa? ridere di tutto, ma con chi? odiare, sberciare, distruggere, infiammare ogni cosa: l’aria, la terra, il mondo! tutto questo grande amore non corrisposto che io dono in continuazione, nelle rose spinose del mio linguaggio.
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