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Sergej Dovlatov appartiene a una generazione di scrittori russi la cui vita è stata, se non schiacciata dagli eventi dell'epoca sovietica, compressa e convogliata, loro malgrado, verso il destino dell'emigrazione nella speranza di potere finalmente pubblicare. Solo una volta altrove, lontano dalla madre patria, essi hanno scoperto l'amaro rovescio della medaglia: nella nuova realtà di emigrati veniva loro a mancare il pubblico dei lettori cui naturalmente le loro opere erano rivolte. Con l'emigrazione, infatti, svanivano i punti di riferimento, si smarriva l'identità e diventava assurdo fare le cose che si sapevano fare, come scrivere di cose russe, in russo e per dei lettori russi: una condizione che Dovlatov sintetizza con la formula felice di un perenne "camminare a testa in giù".
È questo il paradosso che lo scrittore racconta nel Giornale invisibile, un'opera che aggiunge un altro tassello alla storia degli scrittori russi, nati come Dovlatov negli anni quaranta. Prendendo spunto da un episodio autentico della sua vita, l'autore ricorda il tentativo di fondare a New York un giornale russo per gli emigrati, ripercorrendo le vicende accadute e apportando solo qualche modifica ai nomi del giornale ("Lo specchio" nel romanzo, "Il nuovo americano" nella realtà) e dei suoi compagni nell'impresa.
La connotazione autobiografica è una costante della prosa dovlatoviana. La vita dell'homo sovieticus è di per sé un materiale così ricco di spunti che lo scrittore non sente il bisogno di inventare nulla. Con una laconicità che, secondo Josif Brodskij che gli fu amico, apparenta la sua scrittura alla lapidarietà della poesia, Dovlatov ricostruisce un mondo, quello degli scrittori o presunti tali, sempre sospesi tra ispirazione artistica e delirio alcolico, grandi ideali e compromessi con la realtà.
Al testo principale del romanzo si alternano di tanto in tanto dei brandelli (brani di taccuino intitolati Solo per Underwood) che costituiscono delle microstorie incastonate. Sono annotazioni ironiche che mettono in rilievo assurdità e paradossi (anche linguistici) e in cui affiorano continuamente reminiscenze dell'universo sovietico.
Benché l'antieroe, alter ego dell'autore, viva in America come se fosse in Russia, è grato al paese che l'ha accolto, ne apprezza i valori e dimostra di sapere cogliere il fascino che la metropoli esercita su di lui e che nasce da una combinazione di elementi nuovi e apparentemente bizzarri, soprattutto se rapportati alla realtà sovietica che è il suo principale punto di riferimento: "New York è un camaleonte (
) è serenamente affabile e mortalmente pericolosa (
). La sua estetica ha le tonalità di una catastrofe ferroviaria (
). È stata creata per vivere, per lavorare, per divertirsi e per morire". Forse lo scrittore ha il presentimento che New York sia la sua ultima meta (vi morirà a quarantanove anni nel 1990) quando scrive: "Da qui si può scappare solo sulla luna".
Il segreto di Dovlatov non è solo quello di poter scrivere di qualsiasi cosa in maniera interessante (come ha osservato il poeta e critico letterario Lev Losev), ma è anche quello di una narrazione basata sull'understatement che fa sì che, anche quando lo scrittore parla di sé e dei suoi amici, la sua prosa non risulti mai autocelebrativa e conservi invece un mirabile equilibrio grazie all'(auto)ironia.
Giulia Gigante
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