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In Sardegna, in quest’isola di «demoniaca tristezza», una città che è un «nido di corvi», Nuoro, abitata da gente che «sembra il corpo di guardia di un castello malfamato». E in questo paese «che non ha motivo di esistere», una vecchia famiglia, i Sanna Carboni, di notai agiati, rappresentanti di un’autorità che appartiene, in tutti i sensi, a un altro mondo. Il giorno del giudizio segue la storia di questa famiglia tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del nostro: e, insieme a essa, di tutto il paese di Nuoro, dai notabili alle «donne ricche e pallide che sognavano e intristivano nella clausura», dai pastori ai banditi, agli oziosi del Corso, ai preti, ai vagabondi, alle prostitute. E, se pure le vicende dei Sanna formano la spina dorsale del libro, i personaggi si mescolano tutti in un groviglio inestricabile. Il loro vero ‘luogo comune’ è in realtà la morte, il camposanto di Nuoro «dominato dalla rupe, che sembrava una parca». Più che una nuova saga familiare, con quel certo andamento pletorico e in fondo prevedibile che appartiene al genere, questo libro potrebbe essere definito un romanzo metafisico. Qui i vivi e i morti, la Legge e le donne, gli innocenti e i criminali sono come spinti da un turbine rapinoso a presentarsi alla memoria di chi li racconta, sono fantasmi che perseguitano lo scrittore, che poi è uno dei loro e inavvertitamente racconta se stesso come fantasma. Tutti gli si avvicinano «scongiurandolo di liberarli dalla loro vita». Ma, perché ciò avvenga, bisogna che il grande fiume del vivere si arresti in quell’«atto antiumano, inumano» che è il giudizio, come Satta lo definiva in un suo saggio giuridico: «un atto veramente – se lo si considera, bene inteso, nella sua essenza – che non ha scopo». Ma «di quest’atto senza scopo gli uomini hanno intuito la natura divina, e gli hanno dato in balìa tutta la loro esistenza». Per la Nuoro di Satta, che ignora la Storia, «la vera e la sola storia è il giorno del giudizio», così come l’unico peccato, per il codice oscuro e implacabile del luogo, è «il peccato di essere vivi». Dietro la prosa scarna, dietro le storie asciutte e feroci, dietro la concretezza durissima dei fatti, sentiamo in queste pagine una continua febbre visionaria. Sospeso nel momento innaturale e veggente del giudizio, un intero mondo parla qui per la prima volta e si inabissa: ogni sua traccia ha in queste pagine un’intensità violenta, dolorosa e, a tratti, di disperata dolcezza. Alla fine sentiamo che davvero «il sogno galoppava in quelle brulle lande».
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Ho approcciato questo libro spinto da entusiastiche recensioni, che in genere parlano di un Marquez italiano. Senz'altro si tratta di un buon libro, con momenti davvero notevoli: Nuoro, e in generale il mondo sardo di inizio secolo, è tratteggiata con delicatezza e al tempo stesso con la stessa efficacia che si può trovare nelle migliori opere veriste. Il vero cuore del libro consiste proprio in questo ritratto splendido. Quando si passa alla narrazione delle vicende dei personaggi, non ho percepito la stessa ispirazione. Ci sono numerosi spunti narrativi appena accennati, manca una "storia" che completi il quadro d'insieme incastonandolo nella contestualizzazione temporale. Quella stessa contestualizzazione che è presente, si badi bene, anche in Marquez: anche se da lui viene usata per ribadire la ciclicità e l'immutabilità del dramma umano. Ne "Il giorno del giudizio" mi sembra che manchi questo gradino, e lo percepisco come un difetto. E questo lo dico con tutto il rispetto per gli amici sardi, che giustamente (dal loro punto di vista) non possono fare altro che esaltare all'inverosimile il "loro" libro; che però per me rimane un buon libro, senza essere un capolavoro della letteratura europea.
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