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Nel contesto dell'Occidente medievale, le città dell'Italia comunale sono nel XII e soprattutto nel XIII secolo un vero laboratorio, anzi "il" laboratorio, di un nuovo modo di concepire e gestire l'amministrazione della giustizia. Di questa profonda metamorfosi, la ricezione nella giustizia pubblica accanto alla tradizionale procedura accusatoria del principio della procedura ex officio (derivante dalla prassi canonistica), è un aspetto decisivo. A lungo, anzi, la storiografia ha fatto coincidere questo passaggio, sigillato dall'elaborazione di alcune celebri opere come il tractatus o libellus de maleficiis del giurista tardoduecentesco Alberto da Gandino, con "l'affermazione inarrestabile dello stato e di una giustizia di stato (
) a scapito delle altre forme di composizione giudiziaria" come gli arbitrati e le paci. È da una rilettura di questo processo di modernizzazione che parte il saggio di Massimo Vallerani sulla "giustizia pubblica medievale": che non è dunque quella dei tribunali regi o imperiali dell'alto e del pieno medioevo (alla quale un titolo così generale potrebbe in astratto rinviare), ma è specificamente la giustizia del Comune cittadino.
Vallerani, che abbina le competenze di storico dei sistemi e delle istituzioni giudiziarie a quelle dello storico lato sensu politico, dimostra che quella trasformazione non fu né lineare né omogenea, neppure in un ambito segnato da una cultura giuridica condivisa, e da una comune cultura del governare,come fu quello dell'Italia comunale. Certo, sotto la spinta di una potente (e quantitativamente crescente) "domanda di giustizia" che proveniva da società urbane caratterizzate da una violenza diffusa, il sistema giudiziario ammortizza e incanala la conflittualità, la regola e la ridisegna, secondo linee largamente comuni: per esempio, tipizza le denunce adottando stereotipi (gli stupri o le offese sono definiti usando sempre le stesse parole), formalizza il processo (sia accontentandosi della "verità probabile trovata all'interno del processo" come accade nel rito accusatorio, sia cercando una "verità oggettiva", a prescindere dalla volontà delle parti, con il processo inquisitorio). La mediazione dell'apparato (i notai, i giudici podestarili) e la riflessione dei dottori, formati a un comune modo di pensare, ha in questo un grande peso.
E tuttavia, osserva e dimostra Vallerani, nell'ottica dei governi cittadini la gestione dei conflitti non può essere affidata in modo esclusivo all'arbitrio di giudici stranieri, e dunque estranei alle logiche e all'influsso del potere locale, e dunque in qualche modo "terzi". L'approfondimento della politica giudiziaria di due grandi comuni popolari, come Perugia e Bologna, permette di constatare come procedure tendenzialmente omogenee venissero, nelle diverse città, via via adattate alle esigenze, anche quotidiane e immediate, della politique politicienne dei bandi e delle logiche di partito: ad esempio, procedendo per via di eccezione (e dunque lasciando intatto il quadro dei principi), e avvalendosi del prestigio dei giudici consulenti espressi dai collegi locali, spesso non inferiori per prestigio e per dottrina ai giudici esterni che accompagnavano il podestà.
Dunque, un quadro ricco e complesso, quello proposto da Vallerani; e se anche è banale ripeterlo, non per questo è meno vero che sia tutt'altro che privo di insegnamenti per l'oggi.
Gian Maria Varanini
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