L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
IBS.it, l'altro eCommerce
Cliccando su “Conferma” dichiari che il contenuto da te inserito è conforme alle Condizioni Generali d’Uso del Sito ed alle Linee Guida sui Contenuti Vietati. Puoi rileggere e modificare e successivamente confermare il tuo contenuto. Tra poche ore lo troverai online (in caso contrario verifica la conformità del contenuto alle policy del Sito).
Grazie per la tua recensione!
Tra poche ore la vedrai online (in caso contrario verifica la conformità del testo alle nostre linee guida). Dopo la pubblicazione per te +4 punti
Altre offerte vendute e spedite dai nostri venditori
Tutti i formati ed edizioni
Promo attive (0)
recensione di Scarpa, D., L'Indice 1997, n.11
Questo breve romanzo è il primo libro di Laura De Palma. Ha vinto un concorso, "Scrittori per caso", bandito da un piccolo editore che pubblica testi dedicati ai disturbi dell'alimentazione. Sarà difficile trovarlo in libreria ma vale la pena richiederlo perché, nonostante il concorso vinto, la De Palma è una scrittrice nata: affermazione perentoria che proverò a motivare.
Il racconto è in prima persona. La protagonista si chiama Chiara, studia Lettere a Pisa e ha difficoltà con la filologia germanica e i "verbi forti". In un autunno inoltrato e pesto comincia ad accudire, tutte le notti dispari, il signor Ettore, vecchio e ammalato: "Era un pezzo di legno con la corteccia molle, che sapeva di larva e di vermi". Non sappiamo di che cosa soffra don Ettore (dal racconto sono assenti i medici), ma non ha importanza. Basta l'età a fare di lui "un catino vuoto". Dei suoi mali vediamo solo i segni concreti: dolori, lamenti interminabili, diarree. Per questo motivo il libro, che pure è ambientato qui e ora, sembra un racconto d'altri tempi: nelle sue pagine si continua a nascere e morire in casa propria; non per niente agli occhi di Chiara le sedie d'ospedale sono "asettiche e prive di compassione".
La qualità più sbalorditiva di questo libro è il tono di Laura De Palma, il suo sguardo: che è innocente ma duro e non ignora il male, conosce e sa dire la concretezza del dolore. Chiara scopre le miserie del corpo e ne parla con pudore e crudezza: "La pelle di fuori era tutta blanda e si staccava dalle ossa, dagli sterpi sotto le coperte". La morte ci viene restituita come presenza quotidiana, casalinga, e appena un velo sottile la separa dalla vita.
Gli inizi con don Ettore, in una stanza dove i mobili "sembravano bare dimenticate a casaccio", sono difficili. Durante le prime notti Chiara prova per lui tutti i possibili moti di ostilità: dalla voglia di dormire alla ribellione alla ripugnanza. Poi, a forza di condividere le "bassezze" del corpo, giunge alla resa totale: si arrende alla sofferenza del signor Ettore e comincia a volergli bene. Per venire a capo delle nottate prende a raccontargli la sua vita di bambina, la sua famiglia, i suoi esami e i suoi amori andati male. Comincia una psicoanalisi notturna, elementare, disordinata, capovolta, che dura da un dicembre a un maggio. Sdraiato sul lettino c'è un malato che ascolta e non parla: nel libro la voce di don Ettore non si ode mai. Il semplice raccontarsi sarà insieme la diagnosi e la terapia di Chiara, che ci parla anche, con una lucidità tragicomica, della sua bulimia, e sembra suggerirci che il guarire non consiste nel separarsi dal proprio male (è un illuso chi lo crede), ma nel riassorbirlo e fonderlo dentro la propria persona, nel fargli nido nella mente e nel corpo.
Affidato al pendolo dei racconti di Chiara, il romanzo comincia a muoversi avanti e indietro nel tempo, e a ogni oscillazione solleva nuove storie e nuovi personaggi; si sposta anche nello spazio, percorrendo l'Italia su e giù. Il perno, naturalmente, è Pisa: l'università, il lungarno, qualche stradina piovosa e un Campo dei Miracoli fresco e ben poco monumentale. In basso c'è una Salerno fatta di sabbia, di palme e di pannocchie bollite in vendita sul lungomare; qui Chiara ha passato l'infanzia e qui vive la sua famiglia. Da Salerno si guarda e si tocca la costiera amalfitana cara a suo padre ed estranea a sua madre: è il Golfo Paradiso del titolo. In alto c'è Pavia, sede di un passato remoto e sconosciuto: è la città di sua madre. Chiara sa (per sentito dire) che ha vie acciottolate e magnolie, canali e biblioteche legnose e massicce. Sono questi tre luoghi a mettere in moto ogni cosa: la lingua di Chiara - il suo "italiano di nessun posto" - e la folla dei personaggi.
Tra questa folla svetta la madre di Chiara, "un'isola lombarda nel Meridione, una roccaforte pavese inespugnabile". È raro veder descrivere una persona cara con tanta tenerezza, tanto strazio e tanta comicità che scodinzola per ogni dove. Non si dimentica facilmente questa donna "semplice e severa", senza trucco, silenziosa, sempre sul chi vive, con cappotti inguardabili e tachicardie chiuse nel bagno di servizio, e "un orologio piccoletto e fragile, tutto d'oro col cinturino sottile, a maglia fitta" che continua a segnare l'ora di Pavia. Il romanzo racconta la "storia mancata" di Chiara con sua madre, la quale per sconfiggere il silenzio famigliare si affida a una radio "piccoletta e nerina" che "faceva pensare a quei bastardi che vagano a zonzo per le strade". Con la sua cronaca di un dialogo figlia-madre fondato sulle cose non dette, Laura De Palma raggiunge un altro risultato insolito: riesce a parlare dei sentimenti mostrandoli in piena luce ma conservandone intatti la delicatezza e il pudore. Ogni volta che rischia la banalità trova invece la trasparenza: "Alla fine chi se ne va per ultimo si porta dietro il dolore di tutti quelli che se ne sono già andati, e l'ansia per quelli che se ne andranno".
Dalle poche citazioni qualcuno avrà già riconosciuto un tono, un timbro, una voce: Laura De Palma ha ben assimilato la sua Natalia Ginzburg. Se n'è appropriata rubandole tutto quanto le occorreva per mettere insieme un lessico famigliare in cui, a differenza dell'originale, la voce narrante avanza fino al proscenio, con una sincerità e un'autoironia disarmanti ma non disarmate: "Sembravo una palla da biliardo con qualche setola sparsa, e non mi trovavo affatto femminile. (...) Però le bambole le sceglievo tutte coi capelli lunghi e cucivo loro gonne bruttissime. (...) avevo begli occhi verdi spauriti dal mondo, e quelli mi sono rimasti finora; verdi e spauriti dal mondo".
Stabilita la provenienza della materia prima (c'è anche, nel personaggio di Vania la brasileira, un aroma di Jorge Amado: Ginzburg-Amado, che strana coppia), ci accorgiamo subito che il risultato è originale. Laura De Palma è tra i felici pochi che ancora si divertono con le parole, che non se ne lasciano ossessionare. Il suo tratto più personale è la comicità che promana da singole parti del corpo - ciuffi di capelli, sederi, mani: soprattutto mani. In questo libro le membra del corpo vivono di vita propria e indipendente, sono esseri repentini e dispettosi, che non stanno fermi mai. La De Palma possiede anche l'arte degli a capo, che da una riga all'altra precipitano il lettore dal divertimento alla commozione. Le sue immagini colpiscono a tradimento, la scrittura è andante ma tutta controtempi, le metafore sgusciano e inchiodano inaspettate. Al lettore non sfuggiranno le chiuse dei capitoli; citarle non si può (occorrerebbe il contesto), ma somigliano a quelle tessiture di suoni che si spezzano in un inciampo, in una pigna di due o tre note semistonate lasciate cadere di sbieco.
Difetti? Molti, a cominciare dall'autobiografismo troppo scoperto. O dal fatto che questo romanzo tutto è tranne un romanzo. Non c'è costruzione se non quella affidata al rimbalzare dei luoghi e dei ricordi, fino alla morte di don Ettore in maggio e al ritorno di Chiara a Salerno col sole calante sul Golfo: elementare parabola. Il raccontare per il raccontare ha le sue gioie sorgive e i suoi difetti strutturali. Si potrebbe anche dire che i fili di cui è tramata la storia esistono, eccome, ma sono troppo profondamente interrati. Sulla pagina affiora solo il riverbero emotivo, la risonanza interiore che tintinna o rintocca nelle persone e negli oggetti che gremiscono le pagine. Ma del disegno d'assieme non rimane altro che la linea cronologica: da un autunno a una primavera. Forse un temperamento di questo tipo riuscirebbe meglio nel racconto breve: le tante microstorie collaterali e il modo di cominciare e finire i capitoli lo suggeriscono. Resta quindi solo da fare gli auguri a Laura De Palma, che ha ventinove anni, vive a Milano e fa la traduttrice. C'è una poesia di Patrizia Cavalli che sembra il suo ritratto, una poesia di quattro versi: "Se di me non parlo / e non mi ascolto / mi succede poi / che mi confondo".
L'articolo è stato aggiunto al carrello
Le schede prodotto sono aggiornate in conformità al Regolamento UE 988/2023. Laddove ci fossero taluni dati non disponibili per ragioni indipendenti da IBS, vi informiamo che stiamo compiendo ogni ragionevole sforzo per inserirli. Vi invitiamo a controllare periodicamente il sito www.ibs.it per eventuali novità e aggiornamenti.
Per le vendite di prodotti da terze parti, ciascun venditore si assume la piena e diretta responsabilità per la commercializzazione del prodotto e per la sua conformità al Regolamento UE 988/2023, nonché alle normative nazionali ed europee vigenti.
Per informazioni sulla sicurezza dei prodotti, contattare productsafetyibs@feltrinelli.it
L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
Siamo spiacenti si è verificato un errore imprevisto, la preghiamo di riprovare.
Verrai avvisato via email sulle novità di Nome Autore