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Anno edizione: 2011
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Ricostruzione attenta di come una guerra civile si prepari con anni di tensione sociale e di ambizioni politiche (sia a dx che a sx) frustrate.
Recensioni
Il volume costituisce un'articolazione e un approfondimento dei precedenti L'eclissi della democrazia (Bollati Boringhieri, 2004; cfr. "L'Indice", 2004, n. 9) e Il passato di bronzo (Laterza, 2006). Se nell'ultimo Ranzato aveva scritto che la paura di una rivoluzione di tipo bolscevico fu del "del tutto comprensibile" nella primavera spagnola del '36, in questo cerca di mostrare la fondatezza di quella paura e il ruolo che ebbe nello slittamento a destra delle classi medie, che poi appoggiarono il golpe del 17-18 luglio 1936.
Trasparente l'impianto noltiano (per gli effetti della paura, ma non certamente per il giustificazionismo), altrettanto evidenti sono gli intenti storiografici che muovono l'autore. Il primo, del tutto condivisibile, riguarda la necessità di mettere in discussione l'"immagine della Spagna della primavera 1936 queste le ultime parole del volume, come quella di un paese di democrazia liberale accettabilmente funzionante, capace di garantire la continuità del suo sistema politico-economico al riparo da qualsiasi pericolo di sovvertimento rivoluzionario, che sarebbe stato trascinato alla guerra civile solo da una sollevazione militare reazionaria e fascista". Per farlo, Ranzato si sofferma sulla rivoluzione delle Asturie dell'ottobre del '34 ("un'anticipazione, ma anche un importante presupposto della futura guerra civile"), per poi ricostruire le vicende sociali e politiche dal febbraio al luglio '36, in particolare per quanto concerne lo scontro che nel Psoe contrappose il massimalista Largo Caballero ("il Lenin spagnolo") al più moderato Prieto, fino all'estremo tentativo di formare un governo di "salvezza nazionale" che bloccasse la degenerazione del quadro politico, poi sostituito dalla proposta di una "dittatura repubblicana", avanzata senza esito dal moderato Miguel Maura nel giugno del '36.
La Repubblica del '31 non fu una mera forma di governo, ma un progetto di trasformazione radicale e dall'alto della società e dello stato, che, se per le forze repubblicane e moderate di sinistra doveva laicizzare la vita pubblica, mettere fine alle ingerenze dei militari e creare, con la riforma agraria, una classe di piccoli proprietari che rafforzasse le basi sociali del sistema democratico, per la sinistra del Psoe e i comunisti rappresentò solo una fase di passaggio verso la rivoluzione, che, tentata nell'ottobre del '34 in risposta all'ingresso di alcuni esponenti della Ceda nel governo, tornò a riproporsi con la vittoria ("assolutamente legittima", secondo l'autore) del Fronte popolare nelle elezioni del febbraio del '36. In seguito alla quale socialisti di sinistra e comunisti appoggiarono dall'esterno un debole governo repubblicano, sul cui fallimento puntarono per sostituirlo con un esecutivo che avviasse dall'alto l'agognato processo rivoluzionario. Di qui l'intensificazione degli scioperi, degli assalti a chiese e conventi, delle occupazioni delle terre (specie in Estremadura e Andalusia), l'incipiente militarizzazione delle milizie di partito, l'escalation della violenza fino all'assassinio di Calvo Sotelo, che rese manifesto l'offuscamento dello stato di diritto e la perdita da parte di quest'ultimo del monopolio del legittimo uso della violenza.
La seconda preoccupazione di Ranzato è dimostrare che, tra i due schieramenti in via di polarizzazione, esisteva un'area sociale e d'opinione (la cosiddetta "Terza Spagna") che non voleva né la rivoluzione comunista, né una dittatura autoritaria o fascista, e che rimase stritolata, anche perché non adeguatamente rappresentata sul piano politico, mentre i repubblicani, che avrebbero dovuto svolgere un ruolo di moderazione, si rivelarono poco lungimiranti, troppo deboli o rassegnati, scarsamente democratici, oltre che responsabili di una serie di gravi errori: l'aver costretto Alcalá Zamora alle dimissioni; la scelta di Azaña, una volta eletto presidente della Repubblica, di nominare capo del governo il debolissimo Casares Quiroga, anziché Prieto, che avrebbe dato forza al socialismo riformista; l'applicazione di una Riforma agraria che, con la clausola dell'"utilità sociale", consentiva espropri anche della piccola proprietà, la qual cosa gettò nel panico tutti i proprietari; la cancellazione delle scuole cattoliche con un colpo di spugna; il trasferimento dei generali Franco e Mola a destinazioni che ne agevolarono le trame eversive; la sottovalutazione dei segnali di imminente golpe ("più sottovalutato che imprevisto"); la mancata risposta istituzionale all'assassinio di Calvo Sotelo, per dire solo dei principali. Si tratta, in questo caso, di un'interpretazione del tutto plausibile, ma prevalentemente congetturale, dal momento che di quest'area l'autore non può far altro che indagare gli umori e le voci di chi la rappresentò, spesso attraverso la successiva memorialistica. Così come congetturale resta l'influenza che la decisione di José Giral di distribuire le armi al popolo, all'indomani della sollevazione militare, ebbe sulla massa di ufficiali non coinvolti nel golpe, spingendoli ad aderirvi.
Insistendo sulla paura della rivoluzione e il suo reale fondamento, Ranzato finisce per muoversi su un crinale pericoloso, rischiando di essere frainteso. Non è chi non veda, infatti, che si tratta della tesi utilizzata allora dai generali ribelli e dagli ambienti reazionari internazionali, poi ripetuta ad libitum dal franchismo per circa quattro decenni. Il merito di Ranzato è quello di sostanziarla sul piano storiografico con argomenti e un fitto ragionare che risultano convincenti, senza però tacere le altre responsabilità. Per esempio quelle della chiesa, che, come l'autore ha ben chiaro, non era soltanto un'istituzione dedita alla cura delle anime, ma un "potere forte", identificato con le destre, che pretendeva di imporre valori, norme e forme di controllo confessionali a una società fortemente secolarizzata (e persino scristianizzata in alcune regioni). A cui si potrebbe aggiungere che fu la Santa Sede, durante il governo delle destre nel '34, a far fallire il negoziato per un modus vivendi con la Repubblica e a premere, in vista delle elezioni del '36, affinché i nazionalisti baschi si presentassero con il cartello delle destre, anziché su posizioni autonome di centro. Persino la chiesa operò dunque per la radicalizzazione del quadro politico.
Il nodo centrale resta quello del "deficit di democrazia" che l'autore imputa ai moderati spagnoli e che forse non tiene sufficientemente conto della fragilità che i sistemi politici liberaldemocratici avevano mostrato di fronte all'attacco del fascismo in Italia e del nazismo nella Repubblica di Weimar, per non dire di quanto era avvenuto in Austria. Se la democrazia, messa alla prova, aveva dato altrove questi esiti, perché mai le sinistre spagnole avrebbero dovuto considerarla un argine sufficiente ad arrestare la marea montante della reazione?
In conclusione, se il senso del volume è che i propugnatori della rivoluzione ci misero del loro nel far precipitare la Spagna nella situazione che portò all'Alzamiento e alla guerra civile, l'accordo è totale. E ha completamente ragione Ranzato nel restituire alla realtà spagnola degli anni trenta quella complessità offuscata dalla vulgata ideologica e politica successiva. Se fosse, invece, che ci misero del loro più delle classi al potere, più della chiesa, della cattolica Ceda e delle destre eversive, il dissenso non potrebbe essere che altrettanto totale. Alfonso Botti
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