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Alla domanda "che cos'è la letteratura?" l'ultimo libro di Arturo Mazzarella sembra sostituire un interrogativo più modesto: come parliamo oggi della letteratura? A ben vedere, però, le due domande sono intrecciate, ed è il loro intreccio a costituire il motivo di maggior interesse di questo pamphlet, di cui spero di mettere in evidenza l'importanza e la fecondità. Accennerò in seguito alla sua inevitabile unilateralità, che rientra nei diritti di ogni pamphlet, ma che rischia di risultare depistante (lo confermano le prime recensioni sui quotidiani).
Poiché la perdita di prestigio e la relativa emarginazione della letteratura sono attualmente dati di fatto incontestabili, Mazzarella ha deciso di porre sin dalle prime righe la questione cruciale, vale a dire: la letteratura è ormai anacronistica? Potrebbe esserlo, in effetti, rispetto ai nuovi media, le cui caratteristiche sembrano del tutto contrastanti rispetto a quelle della pagina scritta. Fluidità, leggerezza, simulazione, virtualità, plasticità, effervescenza ecc.: se è questo e poiché è questo l'insieme di tratti che rende così seducenti i nuovi media, come non rassegnarsi al declino del testo gutenberghiano, lento, serioso, immobile? Ebbene, la tesi di Mazzarella è che questa opposizione tra vecchi e nuovi media è falsa e fuorviante. Se la maggior parte dei lettori non se ne accorge, ciò accade non per i limiti della letteratura, ma perché la concezione e l'approccio ai testi letterari sono tuttora viziati da una visione tenacemente anacronistica.
Un testo letterario, diceva Mukařovsk² negli anni trenta, è la combinazione di un artefatto e di un oggetto virtuale; in una lettera del 1897 Conrad aveva scritto che un libro è solo per metà l'opera dell'autore: per l'altra metà è opera del lettore. Queste due rapide menzioni (che aggiungo alle auctoritates di Mazzarella) potrebbero già farci comprendere che ogni testo letterario è una macchina virtuale e interattiva, il cui funzionamento presenta più analogie che differenze, almeno in prima istanza, con il funzionamento dei nuovi media. E ancora: quale dispositivo è più flessibile di un testo letterario, la cui apparente immobilità è in grado di generare infinite interpretazioni? Non è questo che ci hanno insegnato la teoria della letteratura e l'ermeneutica?
Proviamo a immaginare per un attimo "un'isola che non c'è", una facoltà universitaria in cui agli studenti la letteratura venisse offerta in questa prospettiva: la plasticità del testo come congegno labirintico, dove il significato non è il messaggio bensì un'esperienza mentale, che seduce come una sfida strategica; il libro come una macchina immateriale più immateriale dei linguaggi, percettivamente vincolati, su cui le nuove generazioni sprecano molto del loro tempo e come una possibilità di interazione che esalta la creatività del lettore. Questa facoltà di lettere, che il libro di Mazzarella ci invita a immaginare, non sarebbe un luogo dove prolungare la propria immaturità: al contrario, sarebbe un luogo a cui potrebbero attingere tutti coloro che colgono la complessità intellettuale del presente e la fecondità delle interazioni tra diversi stili di pensiero.
I lettori competenti sanno che questa prospettiva esiste già: l'hanno resa possibile alcuni autori che Mazzarella menziona, e altri, più importanti, che a mio avviso ha il torto di trascurare (Heidegger e Lacan, per esempio; e lo strutturalismo più serio, che indagava le configurazioni virtuali del testo, il suo dinamismo imprevedibile, e non il suo scheletro; sarebbe importante ricordarlo). Se questa prospettiva esiste già, senza peraltro riuscire a esprimere la propria efficacia, è per i motivi che Mazzarella indica lucidamente e coraggiosamente: a sbarrare il cammino verso una nuova intelligenza del testo letterario sta la figura infantile e desueta del critico letterario, il cui limite fondamentale non è tanto, forse, l'affezione ai valori universali quanto la povertà e l'anacronismo delle categorie mentali.
Questo è un punto che va assolutamente chiarito, per evitare che il discorso di Mazzarella, e di altri studiosi che lavorano in una certa direzione, venga banalizzato e trasformato in una celebrazione acritica dei nuovi linguaggi. Non si tratta, come ha scritto ingenuamente qualche recensore, di coniugare la parola e le immagini, la scrittura e i linguaggi visivi. Non che si debba escludere quest'aspetto, evidentemente. Ma il punto è un altro, e cioè la differenza tra le novità tecnologiche e le novità concettuali. Mazzarella la indica in modo inequivocabile, per esempio quando dice che "l'interattività non è un'acquisizione tecnologica, ma una pratica concettuale". Dunque, la via per una nuova intelligenza della letteratura non è quella, banale, delle contaminazioni (nella misura in cui si limitano, direbbe giustamente la tanto vituperata semiotica, alla "sostanza dell'espressione"), ma quella dei concetti, delle categorie. Occorre una nuova forma mentis, e non qualche supporto tecnologico in più. Ad esempio, l'ipertesto era una novità sul piano tecnologico, imprigionata in un quadro concettuale antiquato. Le novità concettuali stavano (e stanno) altrove: in alcuni libri.
Non si può che plaudire lo sguardo dissacrante che Mazzarella rivolge a un immaginario, che è nuovo solo sul piano tematico: "Nella tematizzazione diretta e frontale della virtualità, come nei romanzi di William Gibson, la virtualità subisce una contrazione poderosa, perde le sue caratteristiche problematiche". Potremmo dire che viene soltanto narrativizzata, anziché essere narrativizzata e concettualizzata al tempo stesso. Il vero cyberspazio è dunque il prospettivismo, e le nuove tecnologie sono chiamate a cimentarsi con le novità filosofiche delle nostra epoca, e non soltanto con il livello tecnologico del giorno prima. Ecco la vera sfida.
Un ultimo punto: sarebbe davvero importante sottrarre le riflessioni, che il libro di Mazzarella riesce a suggerire, agli equivoci e alle semplificazioni. Sugli ibridismi tra scrittura e visualità bisognerà certamente tornare, con strumenti adeguati. Quanto alla critica letteraria, bisognerebbe completare il quadro aggiungendo i nuovi anacronismi, attualmente rappresentati dai cultural studies: per esempio, Eward Said non è meno obsoleto di Fortini o Citati, lo è soltanto in modo diverso. Infine, e qui si dovrebbe riaprire l'orizzonte della ricerca, è vero che la letteratura non è l'espressione dei valori universali: non perché è il linguaggio dei possibili, ma perché è il linguaggio delle possibilità necessarie. Considero questa definizione il risultato più alto della teoria letteraria e dell'estetica nel Novecento: e il punto di partenza verso una concezione selettiva, agonistica, nietzscheana, di quello spazio virtuale che è la letteratura. Giovanni Bottiroli
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