È un libro originale, innanzitutto per gli autori: un politico di lungo corso aspira a farsi storico del proprio tempo e uno studioso dell'Urss si impegna per la prima volta in una riflessione sull'Italia repubblicana. Entrambi provengono da una sinistra critica: i loro mentori sono Antonio Giolitti e Vittorio Foa, anche qui molto presenti (e tuttavia nel 1987 entrambi senatori eletti nelle liste del Pci). Il libro cerca di mettere a fuoco il cuore della vicenda repubblicana e individuare il "dove abbiamo sbagliato", per potere almeno contenere il declino al quale l'Italia pare destinata. Ma è anche un esercizio di ego histoire di quella parte della sinistra italiana, sparsa un po' in tutte le sue molteplici espressioni partitiche e movimentiste, sdegnosa del centrosinistra di Ugo La Malfa e di Lombardi al quale allora si imputava di costringersi entro il paradigma dell'economia di mercato. Poi, a partire dagli anni ottanta, quella sinistra critica ha radicalmente mutato orizzonte. Si percepisce realista, ma viene il dubbio che non abbia consumato interamente i conti con l'ideologismo, ancorché trasmigrato dall'originario marxismo antitotalitario al neoliberismo. E con questa lente guarda al recente passato. Gli anni ottanta sono stati rivelatori di un mondo radicalmente diverso rispetto a quello atteso dal lunghissimo Sessantotto italiano. Sicché le grandi illusioni sono quelle riassunte nella formula con cui Silvio Lanaro sintetizzò la Costituzione: più diritti sociali per tutti, in un quadro di forzata accettazione del disastro dello schmittiano stato totale qualitativo. Negli anni settanta, avvertono gli autori, entrò in crisi anche lo stato totale qualitativo. Per ragioni generali e per scelte nazionali, contrassegnate nel caso italiano da un keynesismo "generico" o "volgare" e la conseguente devastazione dei bilanci pubblici. La soddisfazione delle aspettative crescenti è stata la leva con la quale i partiti di massa hanno governato il miracolo e i decenni successivi, sopperendo all'esaurimento di energia e vitalità con il debito. È un'analisi che apparteneva già ai democratici laici, non molto apprezzati in queste pagine, forse in ragione di una diffidenza di lunga data nei riguardi dell'azionismo politico. Fu La Malfa a dire già nel 1974 riguardo alla classe dirigente: "Dovremo suicidarci tutti in massa, perché tutti siamo coinvolti in questo fallimento". L'azionismo politico, proprio perché intrinsecamente democratico, mise in guardia dalle grandi illusioni. Aveva dalla sua una cultura politica secolarizzata, in un paese in cui si rafforzò un materialismo non secolarizzato. Questa differenza fu la ragione per cui l'intesa con i socialisti, decisiva per la nascita e il consolidamento della Repubblica, si spezzò quando nel Psi prevalse con Craxi la dimensione identitaria, anche se quell'idem sentire animò il Quirinale negli anni di Pertini. Anche il contrasto tra Craxi e Berlinguer andrebbe storicamente compreso, superando quel "duello a sinistra" conclusosi oltre venti anni fa con la sconfitta di entrambi i loro eserciti. Berlinguer e Craxi erano uomini politici: il loro contrasto era sulle strategie politiche. Berlinguer guardava alla via tedesca e dopo la Grosse Koalition, ripresa da Moro, Berlinguer si mosse in quella direzione fino alla morte. Craxi optò per la via francese, delineatasi già con Fanfani e poggiante sull'esclusione e sul debito. In un libro che fa finalmente a pezzi le semplificazioni dei complotti, l'unico ad avere avuto successo sembrerebbe (a detta degli autori) quello antisocialista avente per mandante il "moralismo" di Berlinguer ed eseguito, otto anni dopo la sua morte, dalla magistratura contro Craxi e il Psi. La riflessione critica sugli attrezzi culturali della sinistra italiana conduce a una serrata revisione che, colpendo il keynesismo generico, pare rifiutarlo in blocco. I partiti-stato che pluralisticamente succedettero al partito-stato fascista optarono, a partire dalla fine degli anni cinquanta, per la modalità dell'intervento dello stato nell'economia, origine delle crescenti inestricabili difficoltà, bloccate soltanto con il riformismo del primo governo Amato del 1992-1993. A scorgere gli effetti negativi di questa scelta furono in pochi tra i contemporanei: Sturzo e Malagodi. Era un modo di governare l'economia che avvicinava pericolosamente l'Italia all'Unione Sovietica, paese con il quale il confronto è costante: i libri che leggevano gli studenti medi di Napoli nel 1968, ricorda autobiograficamente uno degli autori, non erano diversi da quelli sui quali si erano formati i liceali di Kiev dopo il 1905. Dopo la grande crisi, però, in tutto l'Occidente il liberalismo si fece pienamente democratico e l'intervento pubblico non fu peculiarità dell'Urss e dell'Italia, anche se in questi paesi ebbe caratteri propri e si esaurì solo con la fine del comunismo. In Italia si nutrì, come questo libro mostra, di tutti i populismi e ideologismi dei quali erano ben dotati i partiti di massa. Sarebbe interessante comprendere perché. Paolo Soddu
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