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“ONE SHOT”. In Greenaway l’elemento ludico bilancia quello tragico con tale efficacia da ridurre i suoi film a esercizi di stile e a giochini intellettualoidi, nonostante il fulgore delle musiche e il parallelismo visivo della fotografia di Sacha Vierny, che sa annullare i piani prospettici e le linee-guida dello sguardo come già il Tati di “Playtime” (1967). Opulenza (coralità? complessità? globalizzazione?) percettiva ma anche narrativa, priva dell’emergere d’una qualsiasi figura di rilievo. Quando invece, forse per la prima e unica volta, Greenaway ha trasceso la propria gabbia stilistica, c’è scappato il capolavoro. Ne “Il ventre dell’architetto” è difficile non trovare un concentrato di tutti i problemi concernenti i massimi sistemi, inclusi quelli metacinematografici. Però solo in quest’occasione il regista ha adottato un singolo e specifico punto di vista, quello di Kracklite, con cui ci si può finalmente identificare, un personaggio che diventa protagonista permettendoci l’innesco del processo d’immedesimazione e dunque la partecipazione affettiva alla sua parabola nefasta. Pertanto il ludico non soffoca più la passione violenta, bruciante, veemente: Kracklite ossia l’impotenza maschile, l’inettitudine a penetrare la realtà, la natura, il femminile. Il reciproco è riscontrabile in Van Sant. Il lungo elenco di difetti che gli vengono attribuiti è giusto: l’esistenza marginale di drogati, sbandati, gay, naturalisti, assassini non gli riesce di renderla un esempio prototipico della condizione umana, un modello antropologico di portata universale. Ma pure in questo caso, l’unica volta che ha saputo evadere dai propri vincoli autoriali, ne è saltato fuori il capolavoro: “Elephant”. Nessuna morbosa adesione agli attori adolescenziali, tutt’altro: un distacco che li rende equivalenti e intercambiabili, privi d’un’identità specifica. Proprio all’inverso rispetto a Greenaway, il racconto acquista un valore generale nell’unica occasione in cui si rinuncia alla singolarità e si sceglie una panoramica d’assieme.
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