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A cinque anni di distanza dal suo ultimo libro, Certificato di esistenza in vita, raccolta di racconti pubblicata da Bompiani, con La guardia è stanca Geraldina Colotti torna a interrogare, in versi stavolta («versi ciechi / di rabbia che consuma»), le coscienze dei lettori, sempre più incupite da «questo grigio tempo bastardo / che teme la vita». Giornalista de «il manifesto», responsabile dell'edizione italiana del mensile «Le Monde diplomatique», reduce da 27 anni di carcere per la sua militanza nelle Brigate Rosse, Colotti è una di quelle scrittrici italiane di cui è impossibile trascurare la biografia, sebbene questa non oscuri mai l'opera, grazie a quel raro dono della leggerezza che permette all'autrice di evitare accuratamente le paludi dell'autobiografismo. Così come in Certificato di esistenza in vita distanziava la materia della narrazione attraverso la finzione, nelle sue poesie, a partire da Versi cancellati (1996) e Sparge rosas (2000), Colotti dosa sapientemente la componente engagée con una vivissima e destabilizzante carica ironica. Assolutamente non domestica, eventualmente si potrebbe definire carceristica (per decenni essendo stato il carcere la sua dimora), verrebbe da dire che Colotti è un poeta incivile, perché richiama continuamente, sottotraccia, la necessità di rovesciare il sistema. A partire dal sistema linguistico. La guardia è stanca, sin dal titolo che richiama la celebre esclamazione con cui il marinaio anarchico bolscevico Zeleznjakov sciolse l'Assemblea costituente nella Russia liberata dell'ottobre 1917, si presenta come un appello ai nuovi figli di una delle tante ribelli del secolo scorso, «dee delle due di notte / dotte / o bollite a metà disperate / però simpatiche mi hai detto» (Amiche).
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