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Si sa che le sintesi non sono agevoli, si espongono a rischi che vanno dall'elusività alla sottovalutazione alla concettosità. Nel caso del libro di Enrico De Angelis, dell'Università di Bologna, le cose non stanno così. Il tema che si è scelto la guerra e i mass media è molto complesso e risulta da un insieme di "complessità". Prima fra tutte quella del contesto, cioè del tempo e del luogo. Il tempo di questa storia è il Novecento, con le sue peculiarità: industrializzazione, tecnologia, nascita della società di massa. Tre componenti che interagiscono e modificano sia la natura della guerra sia la natura dei mezzi di comunicazione. De Angelis ricostruisce per sommi capi fondamentali la storia di un rapporto in continua evoluzione: ogni tipologia di guerra ha un suo medium rappresentativo la guerra di trincea i giornali, la guerra aerea la radio, la "guerra a distanza" la televisione , ogni segmento storico del Novecento ha il suo medium che prevale sugli altri. In questo rapporto sono constanti il pubblico e gli addetti all'informazione. Trattare il rapporto fra guerra e media significa così delineare il profilo di una professione quella del reporter di guerra, appunto che entra in un dialogo sempre più stretto con quello che il potere vuole comunicare al suo pubblico. Il libro dimostra che i media sono strumenti di organizzazione del consenso sempre più dipendenti dal potere giacché autonomi non lo sono mai stati nel mondo occidentale. Lo spazio in cui il lavoro di De Angelis si muove è tra Europa e America: distingue gli stili di propaganda bellica dei vari governi e si sofferma su due momenti periodizzanti: la seconda guerra mondiale e la guerra del Vietnam, sgombrando il campo da una serie di luoghi comuni. Nell'insieme l'autore convince chi legge che il rapporto tra guerra e media sia giunto ad annientare la possibilità di raccontare la guerra, instillando il dubbio che questa possibilità non sia mai esistita.
Enrica Bricchetto
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