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Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche - Michael Walzer - copertina
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Dettagli

1990
1 gennaio 1990
XVI-444 p.
9788820717711

Voce della critica


recensione di Krippendorff, E., L'Indice 1990, n. 8

Viene oggi proposto al pubblico italiano questo libro di un politologo americano sugli aspetti morali della guerra, scritto e pubblicato più di quindici anni fa: a distanza di tempo dal clima e dal dibattito politico degli anni settanta, è ora possibile valutare con maggiore distacco un argomento che senza dubbio merita l'attenzione di quanti ritengono, a ragione, che la politica non sia solo una questione di potere ma anche di morale. Sorge però il problema se le categorie morali siano applicabili anche alla guerra - cioè al diritto di ricorrere alla guerra ("ius ad bellum") e al comportamento dei combattenti ("ius in bello") - o se non sia vero invece che la violenza comporta in primo luogo la fine dell'ordine e che la guerra implica per definizione l'interruzione di quei rapporti e di quei legami che sono o possono essere regolati da criteri morali. È mai capitato che uno stato sia entrato in guerra, o abbia rinunciato a farlo, sulla base di considerazioni morali e non della pura e semplice convenienza? o che i combattenti, arrivati al dunque, abbiano anteposto i criteri morali all'obiettivo di vincere (o di non perdere)? "In amore e in guerra tutto è permesso", dice un proverbio.
Il libro di cui ci stiamo occupando nasce da due specifiche esperienze storiche: l'intervento americano in Vietnam (che vide l'autore aderire all'opposizione intellettuale contro la politica del suo governo) e la seconda guerra mondiale che, secondo Walzer; fu senza dubbio una guerra giusta non solo per gli Alleati ma per l'umanità in generale, minacciata da uno dei più feroci e disumani regimi di tutti i tempi, il nazismo (una tesi che però è sostenibile solo se non si tiene conto della parte asiatica del conflitto, in quanto il Giappone, per odioso che fosse il suo governo militarista, non può essere equiparato alla Germania nazista e alla sua politica di genocidio). Su questo sfondo dunque, quello di una guerra presumibilmente giusta e di una altrettanto ingiusta, devono essere letti gli argomenti di Walzer, anche se il problema che egli affronta è più ampio e generale: stabilire quando una guerra è giusta e quando non lo è. È evidente che non ci troviamo qui di fronte a un'impostazione pacifista: "intendo recuperare il concetto di guerra giusta alla sfera della teoria politica e morale", scrive Walzer nella prefazione e, a proposito dei criteri morali della sua posizione, parla di "una dottrina dei diritti umani" in cui "vita e libertà sono una sorta di valore assoluto". Tutto questo va benissimo, ma sorge immediatamente un problema, forse proprio quello decisivo, a cui Walzer in ultima analisi non sa dare una risposta: se la vita è un valore assoluto, come può darsi una guerra giusta quando in ogni caso anche la più giusta delle guerre comporta un prezzo in termini di vite umane, siano queste di soldati o di civili?
È lo stesso quadro storico in cui si inserisce la trattazione, quello della seconda guerra mondiale e della guerra in Vietnam, a limitare l'orizzonte e quindi la chiarezza analitica di Walzer, che di rado risale nella storia a prima del XIX secolo, per cui invano si cerca una definizione chiara e convincente del concetto stesso di guerra. Certo le definizioni non risolvono i problemi, e anzi spesso danno spiegazioni false e puramente accademiche, ma in questo caso se l'autore avesse guardato più indietro nella storia, almeno fino al secolo XVI o al XVII avrebbe potuto scoprire che questa "pratica sociale", come la chiama a un certo punto, ha ben poco a che fare con chi la combatte o ne patisce le conseguenze, ma è invece in primo luogo uno strumento nelle mani di classi politiche che lo usano sulla popolazione (non importa con quali mezzi e in quale forma storicamente determinata) per rafforzare o estendere il loro dominio.
Il coinvolgimento di chi effettivamente combatte, cioè del soldato, in una "causa", per esempio la difesa del proprio paese, è storicamente un fenomeno molto recente, di cui è difficile trovare esempi prima della rivoluzione francese, ed è anche dubbio se abbia mai funzionato, cioè se abbia mai veramente influito, sugli uomini alle armi, la propaganda con cui chi aveva il potere di decidere la guerra cercava di spianare la strada ai propri obiettivi politici, ideologici o economici. In genere i soldati tendono a fare il loro mestiere, essendo stati addestrati a obbedire agli ordini e a svolgere il proprio compito, e ben di rado si pongono il problema della moralità di ciò che fanno: questo lo decideranno o ne discuteranno, in genere a guerra finita, gli intellettuali e gli storici. Certo ci sono le cosiddette "leggi di guerra" elaborate da varie convenzioni internazionali (e Walzer ne tratta estesamente) e qui si può distinguere tra il comportamento morale e quello che non lo è, ma questo non sposta la questione più seria e importante della moralità della guerra in sé: una questione che va rivolta alle classi politiche che sole sono responsabili sia del mantenimento degli strumenti della guerra (armi ed eserciti) sia del loro periodico impiego, e su questo nessun regime al mondo è senza peccato.
"La guerra non è un crimine quando i soldati combattono liberamente, scelgono il nemico e decidono quali sono le loro battaglie". Ma quando mai si è verificato un caso del genere? Bisogna davvero ignorare la storia per fare un'affermazione come questa: non valeva per i lanzichenecchi del Quattrocento, che facevano il loro lavoro unicamente per denaro e non sceglievano mai il nemico, tanto meno vale per le guerre dei secoli successivi, che sono preparate, organizzate e infine condotte dagli stati. Il fatto è che Walzer sembra non aver chiaro che cosa sia uno stato, e tende a identificarlo con una visione idealizzata del suo paese, affermando categoricamente che "gli stati sono fondati per la vita e la libertà" e che "scopo massimo dello stato è la difesa"; può darsi che questa fosse la motivazione dei padri fondatori degli Stati Uniti nel 1780, ma già la successiva espansione delle tredici colonie a coprire tutto il continente nordamericano non fu precisamente un'azione difensiva e senza dubbio privò della libertà le popolazioni indigene, per non parlare degli innumerevoli interventi militari operati dagli Stati Uniti negli oltre duecento anni che da allora sono passati. Quel che è certo è che nella storia nessun grande stato, dall'Asia all'Europa, è mai stato fondato per difendere la vita e la libertà dei suoi cittadini e tanto meno quella degli altri: tutti nascono dal dominio dinastico basato sul potere militare e sulla capacità di combattere delle rispettive classi politiche. Conosco un solo caso che potrebbe rispondere alla definizione di Walzer, ed è quello di Israele, il cui permanente stato di guerra è diventato un vero e proprio incubo per quanti hanno a cuore la pace e la moralità della politica. Gli stati e la loro capacità di combattere, rappresentata dalle forze armate, sono fratelli gemelli, e se non si capisce questo non si capiscono né gli uni né le altre.
Il libro di Walzer dedica molto spazio al problema dell'aggressione, che è il modo più moderno per definire (e condannare) la guerra, ma che di nuovo non va alla radice del problema. Questo è infatti storicamente più complesso e più semplice a un tempo, in quanto l'uso della violenza organizzata e di un corpo separato addestrato all'uso delle armi, le forze armate, è uno strumento politico a cui nessun governo e nessuna classe politica, anche nel più pacifico degli stati, ha mai rinunciato spontaneamente, neanche quando non c'era nessun nemico in vista: quando i governi ricorrono a questo strumento è sempre per una "guerra giusta", e se si tratti di aggressione o di difesa contro un'aggressione lo decidiamo a seconda della parte da cui stiamo, o da cui stanno i nostri intellettuali, i nostri storici, i nostri ideologi.
Le tesi di Walzer, in sé inconsistenti, acquistano però grande interesse a un "secondo livello", in quanto dalla sua argomentazione si vede come un certo modo americano di ragionare sia in fondo di tipo teologico: molte delle sue pagine avrebbero potuto essere scritte dai teologi cristiani di prima dell'illuminismo, certo non nei dettagli e naturalmente senza gli esempi qui utilizzati, ma senz'altro con lo stesso stile e la stessa struttura logica in cui gli argomenti vengono soppesati l'uno contro l'altro senza mai arrivare a una conclusione chiara e inequivocabile e finendo per non fornire una risposta alle domande che ci si pongono quando si cerca di orientarsi politicamente e moralmente in questo mondo di guerre e di violenza. Chissà se Walzer era d'accordo con la denominazione di "operazione giusta causa" con cui è stata battezzata ufficialmente la recente invasione americana di Panama, un'operazione che ha avuto l'approvazione della stragrande maggioranza non solo degli americani ma anche di quegli intellettuali liberal che, come lo stesso Walzer, a suo tempo si erano opposti all'intervento in Vietnam. Certo questo libro, relativamente chiaro per quanto riguarda il passato, non fornisce una risposta al problema della moralità di questo o quel conflitto militare di cui leggiamo quasi tutti i giorni sul giornale. Walzer auspica l'avvento di un modo di combattere la guerra più civile, meglio disciplinato e più "umano", primo passo verso la trasformazione ultima della guerra in politica: non c'è chi non sarebbe d'accordo tra i militari e i politici che chiamano i loro soldati a combattere, e che su queste vaghe basi continueranno e sentirsi moralmente giustificati a ricorrere allo strumento della guerra.

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Conosci l'autore

Michael Walzer

Michael Walzer, uno dei più importanti pensatori politici americani, ha diretto la rivista politica "Dissent" per oltre tre decenni. Ha scritto su una vasta gamma di argomenti di teoria politica e filosofia morale.Tra i suoi titoli pubblicati in Italia ricordiamo Esodo e rivoluzione (Feltrinelli, 2004), Sfere di giustizia (Laterza, 2008), All'ombra di Dio. Politica nella Bibbia ebraica (Paideia, 2013), Le conseguenze della guerra. Riflessioni sullo «Jus post bellum» (Mimesis, 2017) e Una politica estera per la sinistra (Raffaello Cortina, 2018).

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