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Nella sagrestia della chiesa di St. Matthew a Paddington, nel cuore di Londra, sono ritrovati i corpi di due uomini con la gola squarciata. Uno è Sir Paul Berowne, ministro della corona, ricco e colto; l'altro è Harry Mack, un povero vagabondo alcolizzato. L'ispettore Adam Dalgliesh e i suoi due giovani assistenti Kate Miskin e Massingam si dannano per capire come e perché questo terribile evento sia accaduto e se sia stato un omicidio (di Mack) seguito dal suicidio di Berowne o se entrambi siano stai assassinati. Trama complessa di una scrittrice molto famosa (anche il luogo del delitto, una sacrestia, sembra un espediente indovinato), che però qui pecca in maniera plateale. Phyllis Dorothy (PD) non sembra essere interessata a portare a compimento le indagini e giungere a una conclusione. Al contrario, discetta su tutto lo scibile umano: su arte, architettura, filosofia, religione, politica, sociologia, psicologia, perfino urbanistica. Il romanzo è oltremodo verboso, prolisso, sesquipedale, è un torrente impetuoso di parole che, scendendo a valle, travolge il povero lettore e lo stordisce. Un romanzo giallo segue regole precise, codificate in brevità ed essenzialità (vedi, e.g., Uno Studio in Rosso di A. Conan Doyle). Qui invece PD si dilunga in 410 pagine suddivise in ben cinque libri (ognuno dei quali avrebbe potuto essere un romanzo a se stante) per un totale di ca. 180 mila parole, una folle esagerazione! Forse voleva scrivere una saga che diventasse famosa come quella dei Forsyte (Galsworthy) o forse un super-romanzo storico come Guerra e Pace di Tolstoj o I Pilastri della Terra di Ken Follett. Però mentre quelli qui citati ed altri resteranno per sempre nella storia della letteratura, dubito che questo giallo lo sarà mai. Se teams di giocatori di rugby si divertissero a zigzagare per il campo di gara senza mai giungere a meta, penso che gli spettatori invaderebbero il campo e li massacrerebbero.
Non l'ho ancora finito, comincia ad essere interessante solo verso pagina 300 ! All'inizio è noioso e defatigante ; riuscivo a leggere tre pagine poi mi assopivo! Quel che trovo strano è che sembra un romanzo scritto almeno 100 anni prima !
Il romanzo è ben costruito ed è forse lodevole la ricerca di approfondimento psicologico dei personaggi, però a me è sembrato un pò lento e non è molto piaciuto.
Recensioni
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JAMES, P.D., Un gusto per la morte, Mondadori, 1987
(recensione pubblicata per l'edizione del 1987)
JAMES, P.D., Scuola per infermiere, Rusconi, 1987
JAMES, P.D., La torre nera, Rizzoli, 1986
recensione di Cortellazzo, S., L'Indice 1987, n. 7
Della morte, del dolore, della sofferenza: di questo ci parla P. D. James sin dal suo primo romanzo "Cover Her Face", scritto nel 1962. Le sue sono detective stories o gialli a enigma non totalmente ortodossi, se li si confronta alla tradizione classica del Whodonit. Alcune regole sono accettate, certo, ma molte vengono scardinate: le sue storie non sono perfette e geometriche come quelle di un tempo, la "giustizia" finale trionfa, ma l'ordine non si ricompone totalmente, i suoi detectives vivono e lasciano in prima persona, non sono manichini alla Poirot colpiti come sono, loro primi dal dolore, dalla morte. Adam Dalgliesh, funzionario di polizia a Scotland Yard, è il protagonista di questi tre romanzi È un uomo solitario, riflessivo, malinconico, umano, ed è anche un poeta apprezzato, che ama l'arte e la letteratura. Un uomo segnato da "cicatrici invisibili"- dal titolo di una sua raccolta di poesie -, invisibili all'uomo comune ma portate alla luce, nella loro evidenza, dalla penna della James. I delitti naturalmente, sono il suo pane quotidiano. Un pane spesso trangugiato con amarezza, con la coscienza e nella consapevolezza dello sfruttamento "delle debolezze altrui del dolore e della solitudine, della paura del sospetto, del bisogno di confidarsi".
Quando il delitto avviene - e i cadaveri sono lì, sotto i nostri occhi scioccanti impietosamente descritti - si apre una voragine che ingoia a catena altri omicidi (e sono tanti! una quindicina, se assommati fra i tre romanzi). Si ha la sensazione che non ci sia mai un'ultima vittima, perché anche fra i "vivi" nessuno rimane immutato. La James procede nei racconti con una minuzia descrittiva maniacale, con un realismo formidabile, entrando in mondi in cui "il tempo è misurato con precisione, i dettagli osservati con attenzione ossessiva, i sensi estremamente attenti". Ogni ambiente, ogni oggetto, ogni impercettibile trasalimento fisico, ogni parola divengono un'affermazione d'identità da vivisezionare. E d'altro canto i luoghi scelti dalla James sono spesso spazi attraversati dal dolore: la torre nera del romanzo omonimo; il ricovero per malati incurabili, sempre nel medesimo romanzo; la "scuola per infermiere" set di delitti che si svolgono nel presente vivendo nell'eco di efferatezze e torture appartenenti al passato; una casa museo in "Un gusto per la morte" che nasconde fra le sue mura scandali, ricatti e, naturalmente, morti.
E la sciagura è sempre lì, spesso annunciata da premonizioni dei personaggi o inevitabilmente determinata dal procedere delle indagini - quanti omicidi per occultare le prove - o ancora seguita, passo passo, in modo rassegnato, dalla James, che ci rivela quale sarà la prossima vittima. Insomma la morte, nei romanzi della scrittrice inglese, non è mai vissuta come enigma affascinante da risolvere. È la sua immanenza ed imminenza a dettare le leggi del racconto. Un racconto, come suggerisce Julian Symons, "unconfortable to read", scomodo dunque e, potremmo aggiungere, malato dal "gusto per la morte".
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