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L' idea di nobiltà in Italia (secoli XIV-XVIII)
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1995
29 giugno 1995
410 p.
9788842047032

Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)
recensione di Frigo, D., L'Indice 1988, n.10

Da molti anni ormai, la storiografia europea sull'antico regime si aggira attorno al tema della nobiltà, individuata come categoria e dimensione imprescindibile per qualsiasi indagine su quei secoli. Da qui il fiorire, anche in Italia, di un'abbondante messe di studi sui ceti aristocratici di quell'epoca, e sulle molteplici forme del loro lungo predominio politico e sociale: ideologia, modelli culturali, assetti civili, ordini, forme di predominio economico, patrimoni, norme della trasmissione ereditaria e così via. Il volume di Donati si pone in certo qual modo come luogo d'arrivo di questa ricca stagione storiografica: in quanto tale, se da un lato mette a punto una sintesi efficace dei temi fin qui dibattuti, dall'altro apre nuove prospettive di ricerca. Queste ultime vanno colte soprattutto nell'attenzione al dispiegarsi sul lungo periodo della riflessione teorica sulla nobiltà, indagata in pagine di autori talvolta sconosciuti, ma non di meno significativi per la legittimazione che di quel predominio nobiliare seppero di volta in volta offrire. Il contenuto di termini come populus, nobiles, milites, avverte l'autore, non può essere dedotto aprioristicamente, "ma dev'essere pazientemente ricostruito in base alle fonti per le diverse aree e i diversi periodi" (p. 20): è questo, in sintesi, l'intento primo dell'ampia ricerca di Donati, che, a partire da posizioni come quelle di Dante o di Bartolo, individua e mette a fuoco i momenti essenziali della definizione della nobiltà in Italia.
Primo momento fondamentale è quello legato all'esperienza comunale. All'indomani della sconfitta, a fine '300 dei moti popolari si afferma quell'equazione nobiltà = classe dominante che con accenti via via diversi sarà poi riproposta fino alle soglie della Rivoluzione. Fra XIV e XV secolo il dibattito sulla nobiltà trova a Firenze una sede privilegiata: dal Salutati al Bracciolini al Platina, le discussione si incentra su quel connubio nobiltà - virtù che sottintende la più ampia distinzione, anche questa ripresa per secoli, fra nobiltà individuale e nobiltà di nascita.
Dopo la stagione umanistica, e il fitto intreccio fra nobiltà e "vita civile" che la caratterizza, e dopo la risonanza europea del modello cortigiano elaborato dal Castiglione, la riflessione si sposta nel Cinquecento, anche per l'influsso di modelli stranieri, verso la definizione del perfetto "gentiluomo", termine assai vago e incapace, come già avvertivano Machiavelli e Guicciardini, di cogliere la molteplicità estrema delle situazioni civili e istituzionali dell'Italia del tempo. Termine, non di meno, adottato dalla successiva trattatistica come rappresentazione visiva di una compiuta e omogenea ideologia nobiliare, e dunque felice sintesi dei valori in quel momento dominanti: onore, virtù, dignità, eccellenza. L'onore, in particolare, appare nel Cinque e Seicento il valore nobiliare per eccellenza, come anche gli studi europei hanno da tempo indicato (si pensi ad esempio a J. A. Maravall, "Poder, honor y élites en el siglo XVIl", Madrid 1979, trad. it., Il Mulino, Bologna 1984). Un onore ancora fortemente radicato in una tradizione cavalleresca che, affievolitasi da tempo, proprio nel Cinquecento sarà ripresa e ricreata nella letteratura e nella pubblicistica sul duello, oltre che nella creazione dei vari ordini cavallereschi. Altro tema fondamentale della riflessione cinquecentesca, quello della definizione delle arti "vili" e meccaniche interdette al gentiluomo: tema che si radica nella necessità politica, per i gruppi dominanti italiani, di stabilire in modo inequivocabile i criteri di accesso ai consigli e agli organi di governo cittadini. Quanto questi criteri fossero mobili nello spazio e nel tempo, e risultassero dunque funzione dello specifico assetto politico di questa o quella città, lo si è compreso proprio attraverso le molte indagini sui patriziati italiani d'antico regime prodotte dalla storiografia recente. Affiorano infine, nella riflessione del secondo Cinquecento, tensioni e lacerazioni interne alle nobiltà cittadine, che a Venezia come a Genova sfociano in un aperto scontro fra il partito dei vecchi e quello dei giovani, e che sono un chiaro segnale delle mai sopite spinte oligarchiche degli assetti repubblicani. Tra il finire del Cinquecento e l'aprirsi del secolo nuovo, in coincidenza con un'effettiva crescita numerica dei ceti dominanti, può dunque collocarsi il momento di piena maturità dell'ideologia nobiliare, come è dimostrato anche dall'alto numero di scritti sul tema editi in quel periodo.
Nel Seicento non pare invece affermarsi un nuovo modello di nobiltà, la pubblicistica si limita a ribadire la superiorità della nobiltà di sangue su quella acquisita: ma è importante, come nota Donati, comprendere come al di sotto di questa esaltazione stia in molti casi una polemica sottile verso la politica dei sovrani del tempo, che avevano fatto della concessione di titoli nobiliari una forma diffusa di ricompensa dei servizi prestati da consiglieri e funzionari. Se la nobiltà d'ufficio non raggiunse da noi le dimensioni della noblesse de robe francese studiata da G. Huppert, studi come quello di Stumpo per il Piemonte e di Comparato per Napoli attestano che il fenomeno si ritrova comunque in molti stati della penisola. È presente nella dottrina del tempo, insomma, quella distinzione fra patriziati e nobiltà di servizio, fra assetti cittadini e strutture statali in formazione, fra autolegittimazione nobiliare e concessione sovrana dei titoli, che sarà poi un tema frequente del dibattito settecentesco, e che nella pubblicistica precedente aveva trovato una sua forma peculiare di teorizzazione nella dicotomia principato - repubblica.
Contro i titolati recenti, e contro una nobiltà divenuta oggetto di scambio fra ceti borghesi e sovrani, ma anche, talora, a legittimazione di queste recenti nobilitazioni, si afferma nel Seicento il gusto della ricerca genealogica. Ma si levano anche voci in favore della rivalutazione di alcune arti e professioni, a testimonianza degli effetti devastanti che la crisi economica aveva prodotto su molte casate aristocratiche: effetti che, nella trattatistica, si riflettono in ampie discussioni sulla "nobiltà povera". A partire dal tardo Seicento affiorano però anche posizioni diverse. Nell'opera del cardinal De Luca, autentica summa giuridica di tutta un'epoca, la visione della nobiltà è segnata da profonde contraddizioni: accettazione e negazione dei patriziati; definizione di tre ordini della società nobiliare (principi; feudatari, titolati e senatori, gentiluomini), ma consapevolezza dell'insufficienza dello schema quale chiave di lettura delle situazioni istituzionali e civili della penisola, intento di definire una regola generale della nobiltà, e ripiegamento, alla fine, nella difesa della consuetudo loci.
Nemmeno De Luca, in definitiva, sfugge a quell'ambigua distinzione fra nobiltà naturale e nobiltà acquisita che sarà presente in questo tipo di letteratura fino al Settecento inoltrato, e che rispondeva al bisogno dell'aristocrazia stessa di stabilire al suo interno una gerarchia precisa, se pur mutevole nel tempo di status e di ordini. Di lì a qualche anno voci come quella di Scipione Maffei esprimeranno invece una presa di posizione decisa in favore della riconversione della nobiltà agli impieghi pubblici e al servizio allo stato, come era stato auspicato, ancora a fine Settecento, da Francesco d'Arco.
La definizione e la cristallizzazione dei patriziati cittadini in base a regole e a criteri interni, stabiliti dagli stessi appartenenti a quei ceti, entrano in collisione, nel primo Settecento, con la visione della nobiltà come concessione e riconoscimento regio di cui sono portatrici le dinastie che si insediano in alcuni stati italiani: esemplari i casi dei Lorena in Toscana e della dinastia asburgica in Lombardia. Come nota Donati in riferimento alla Lombardia, la pretesa del nuovo governo di redigere un elenco ufficiale dei titolati milanesi, da legittimare con l'approvazione sovrana, sovverte i tradizionali equilibri politici, e, soprattutto, urta contro la prassi consolidata, che voleva il patriziato stesso unico depositario dei criteri della nobiltà. Ecco allora i ripetuti scontri fra volontà di riforma e difesa degli assetti precedenti da parte della nobiltà locale, che, come la storiografia ha mostrato, caratterizzano l'avvio della dominazione austriaca in Lombardia.
Già sul finire del secolo, tuttavia, appaiono posizioni che, distanziandosi nettamente dalla tradizione precedente, instaurano un diverso nesso fra nobiltà e proprietà. Ci pare quindi assai efficace il richiamo, in chiusura, a quanto scriveva nel 1805 Domenico Monga in una "Memoria su' fidecommessi": "Un principe che voglia regnare sopra l'affezione de' suoi sudditi, deve attribuire alla proprietà tutti quei diritti, dei quali godeva in altri tempi la nobiltà. (...) La classe dei proprietari è la vera potenza intermedia fra il sovrano e il popolo...". A queste indicazioni si affiancano, di lì a pochi anni, quelle del Romagnosi, che propone, quale base organica della monarchia nazionale rappresentativa, una nobiltà strettamente intrecciata con le cariche pubbliche del regno, sancendo in tal modo l'affermarsi di quella visione della nobiltà come ricompensa sovrana e come riconoscimento della preminenza di censo, che sarà tipica dell'Ottocento.
Sul volume di Donati, in conclusione, sarà opportuno discutere a fondo, e con esso non si potrà, nei prossimi anni, non confrontarsi. Un lavoro, il suo, che sollecita anche apertamente ulteriori e più circoscritte indagini, nelle quali sia possibile intrecciare più strettamente le categorie della riflessione teorica alle vicende sociali, politiche e istituzionali degli stati italiani d'antico regime.

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