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«Gli uomini non si voltano più a guardarmi. [...] Ogni donna misura il proprio grado di invecchiamento dall'interesse o dal disinteresse che gli uomini manifestano per il suo corpo». Che si tratti di Bruf** o Mom*** non cambia granché; sempre di ibuprofene si tratta: stesse indicazioni per sintomi analoghi e, suppergiù, a pari dosaggio, stessa efficacia e controindicazioni. Fra Kundera e il Marías de 'L'uomo sentimentale', 'Gli innamoramenti' e 'Così ha inizio il male', per dire, sempre della complessità delle relazioni umane si tratta: due colossi!, che mi si è rivelato solo ora, dopo quattordici Marías, sei Kundera e svariate cefalee tensive, essere proficuamente interscambiabili, proprio come Bruf** e Mom***. La qualità è quindi garantita, tranne per qualche controindicazione in più per il Marías delle ultime due pubblicazioni; per il resto pura soddisfazione letteraria ed emozionale. «Da adolescente, in effetti, arrossiva di continuo: si trovava all'inizio del percorso fisiologico della donna, e il suo corpo le appariva come qualcosa di ingombrante, qualcosa di cui si vergognava. Da adulta, ha smesso di arrossire. Poi le vampate di calore le annunciarono la fine del percorso, e di nuovo prova vergogna del suo corpo. Il suo pudore si ridestò e imparò un'altra volta ad arrossire».
Il titolo dice esattamente ciò di cui parla il romanzo che, se dal punto di vista narrativo mi lascia con la sensazione che si prova alle fiere quando prendi la frittella bramata da un anno e ti accorgi che quello usato è proprio ancora l'olio dell'anno passato, per quanto riguarda i temi e le riflessioni che si offrono al lettore, grazie a un inesausto gioco tra personaggi e narratore, non posso che consigliarne la lettura. E l'aver scritto un periodo così lungo e arzigogolato mi fa pensare che ho ancora la frittella sullo stomaco. Il romanzo analizza le premesse e declina e sviluppa le conseguenze del non riconoscere la persona amata, perché un altro viso si sovrappone al suo o perché crediamo di scorgerla dove o quando essa non è. Lo specchio delle nostre brame a volte s'offusca. Dovreste leggerlo.
Neppure in questo romanzo Kundera si smentisce. Un grande scrittore introspettivo che fa di una semplice storia un grande libro.
Recensioni
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recensione di Moro, C., L'Indice 1998, n. 3
La perfezione che fior di recensori ha acclamato nell'"Identità" non è, come vorrebbe la malizia dei sussurroni, iperbole da tempi di magra o amichevole viatico per le settantamila copie della prima tiratura. Va spogliata dei paramenti esclamativi, e ristretta al senso precritico, tecnico: è un romanzo che esegue sino in fondo le proprie mansioni, che anticipa e consuma tutto ciò che si può dirne, che tende a eludere addirittura la parafrasi: annovera insomma, tra le sue prerogative, la facoltà di chiosarsi in esclusiva. Di fronte a tanta sapienza d'autore, agli altri resta l'onere dimesso dell'ostensione.
Ed è piuttosto facile mostrare temi e partiture in Kundera, perché di rado uno scrittore ha aderito con simile indefettibilità ai canoni di una poetica. Due suoi scritti estetici, il "Dialogo sull'arte del romanzo" e il "Dialogo sull'arte della composizione", offrono un decalogo pronto alla spigolatura. "Mi piace moltissimo scegliere come titolo di un romanzo la sua categoria principale". Categoria che, nell'"Identità", finisce con l'essere quintessenziale del genere-romanzo, dal momento che "tutti i romanzi di tutti i tempi indagano l'enigma dell'io". Tuttavia l'"interrogazione meditativa" o "meditazione interrogativa" rivolta all'io si guarda bene dal disegnarne la psicologia, dal simulare il vivente in modo realistico; ne coglie invece il "codice esistenziale", la "carta" che restituisce fenomenologicamente "l'essenza delle situazioni umane", rendendo vivo un personaggio al di qua del suo sembiante.
Alla coppia di parigini che duettano nell'"Identità" non occorre maggiore verisimiglianza e concretezza. Vigile nel dosaggio, Kundera concede "in itinere" quel poco che basta dei loro tratti e del loro passato: lei, Chantal, è una bella donna di mezz'età, ex insegnante di liceo ora a libro paga in un'agenzia pubblicitaria, un figlio di cinque anni morto e un divorzio alle spalle; lui, Jean-Marc, più giovane e di censo incerto, ha interrotto gli studi di medicina e campato la vita con vari mestieri, dal maestro di sci al disegnatore di mobili. Secondo la misura sociale, un'identità mutata lei, un'identità mancata lui; soltanto due delle loro identità, e neppure quelle decisive.
Kundera sa che nessuna epoca più del nostro secolo al declino ha scomposto l'identità, l'ha indovinata plurale, è stata presa dal panico della sua evanescenza e insieme si è lasciata affatturare dalla sua ingannevolezza. Sa anche che questo gioco di rifrazione prismatica riesce al meglio all'interno della geometria d'amore, dove il rispecchiamento si fa vertiginoso. Non a caso pone la vista in piena maestà, e lo rimarca nella composizione, a capitoletti alternati dal punto di vista di lui e dal punto di vista di lei, fedele al dettame di "unire l'estrema gravità della domanda all'estrema leggerezza della forma".
Dinamica dello sguardo e identità dell'altro sono inscindibili: Chantal teme di non catturare più gli sguardi maschili (di divenire prima "traslucida, poi trasparente, poi invisibile") e da parte sua Jean-Marc è convinto che il corpo di Chantal sia "rimasto confuso tra milioni di altri, finché uno sguardo di desiderio si è posato su di esso e lo ha sottratto a quella brumosa moltitudine"; l'abbaglio di Jean-Marc, che un giorno crede di vedere da lontano Chantal e scopre di aver rincorso una vecchia, viene confermato dalla lentezza del suo rituale di riconoscimento ("dall'istante in cui la vede all'istante in cui la riconosce come colei che ama... ci mette il suo tempo"); il disgusto adolescente di Jean-Marc per il battito di ciglia delle donne si trasforma nell'emozione di un'identità ritrovata quando lo scorge in Chantal. In un rimbalzo continuo, l'enigma di un'altra identità assedia Chantal, che nasconde lettere di un ammiratore sconosciuto, e sperde Jean-Marc, che gliele invia sotto il nome siglato di Cyrano de Bergerac e la bracca nella lunga fantasticheria finale.
Quasi a correggere gli svaporanti mezzitoni del romanzo, Kundera lo ravviva di pennellate rosse - le vampe di Chantal, gli addobbi erotici del suo corpo, le rose il cui profumo si immagina di essere, le tende del sogno londinese -, lo dissemina di microsaggi sulla noia e sull'amicizia, e vi incastona parole reboanti come "transustanziazione" e "desustanziazione". E se l'arte del romanzo, come la vita nell'omonima opera kunderiana, fosse altrove?
recensione di Volpe, S., L'Indice 1998, n. 3
Ci sono due figure nascoste nell'ultimo romanzo di Milan Kundera, ma con un sapiente dosaggio di confessioni lo scrittore ha depositato in anticipo qualche buon indizio per i suoi lettori più assidui. La prima, evocata in lungo e in largo nell'"Arte del romanzo", è stata lapidariamente fissata nelle sue pagine conclusive in una formula che non concede repliche: "Il romanziere non deve rendere conto a nessuno, tranne che a Cervantes".
Ma cosa c'entra Cervantes con "L'identità"? Per scoprirlo è necessario accostare questo debito confessato a una presenza per molto tempo dissimulata negli scritti teorici kunderiani, a dispetto di una vistosa influenza: René Girard, che con il suo "Menzogna romantica e verità romanzesca", pubblicato agli inizi degli anni sessanta, ha denunciato la menzogna romantica del "desiderio spontaneo" descrivendo minuziosamente la fenomenologia del desiderio triangolare, mimetico, dove l'oggetto del desiderio è sempre suggerito da un mediatore. Condizione inequivocabilmente contagiosa nell'universo kunderiano: innanzitutto una folta schiera di personaggi nei racconti di "Amori ridicoli"; e poi Jaromil, il poeta adolescente de "La vita è altrove", e tra i tanti altri il più limpido, Ludvik, il protagonista de "Lo scherzo", che desidera Helena unicamente attraverso lo sguardo del suo mediatore, del suo nemico Zemánek.
Solo recentemente si è avuta una esplicita legittimazione - breve ma eloquente - in una nota a piè di pagina de "I testamenti traditi" dove Kundera ha citato il saggio di Girard, definendolo "il più bel libro sull'arte del romanzo". E così, da lettore entusiasta, avrà certamente apprezzato tra le molteplici configurazioni del desiderio triangolare la prima in ordine cronologico, ancora una volta Cervantes, che Girard illustra attraverso le pagine del "Curioso impertinente", una delle novelle intercalate del "Don Chisciotte", in cui Anselmo, da poco sposato con Camila, chiede all'amico Lotario di corteggiarla per metterne alla prova la fedeltà, con un tragico finale che punisce oltre misura l'incauto disegno.
Girard aveva dichiarato senza sfumature che "non c'è idea del romanzo occidentale che non si trovi in embrione in Cervantes": e Kundera non ha avuto alcuna difficoltà, da parte sua, a confermarne la previsione con una pertinente rielaborazione del testo cervantino. Senza particolari veli, il narratore de "L'identità" ci annuncia che Jean-Marc "aveva sottoposto Chantal a un test per misurare la sua disponibilità a lasciarsi sedurre da un altro". Intenzione eloquente: anche in questo caso la curiosità sembra portare su una strada pericolosa ma, visto che "un ritorno puro e semplice all'osteria di Cervantes non è più possibile", il registro fantastico permetterà di introdurre una soluzione diversa, forse più consolatoria.
Nell'introduzione al suo testo teatrale "Jacques e il suo padrone", omaggio a Diderot, Kundera aveva stigmatizzato il fatto che un giorno tutta la cultura passata sarebbe stata "completamente riscritta e completamente occultata dietro il suo "rewriting"", associandosi all'invettiva del Padrone: "Vadano in malora tutti quelli che si permettono di riscrivere ciò che è stato scritto!". Se quel testo era una "variazione" esplicita, "L'identità" percorre una strada più nascosta, ludicamente sottratta all'attenzione dei recensori. Ma dietro gli amori di Chantal e Jean-Marc quella "figura nel tappeto" annuncia un suono inconfondibile: la risata del demiurgo che è anche un nostalgico omaggio al romanzo cervantino.
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