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Dopo l'interessante Davanti allo schermo. Storia del pubblico televisivo, più volte riedito da Carocci, Francesca Anania propone uno studio su come la televisione pubblica ha affrontato la storia del Novecento nell'arco dei suoi cinquant'anni. Dentro questa analisi si intrecciano due piani: il mutamento delle strategie televisive e il rapporto degli storici con gli audiovisivi. Il libro è anche una riflessione sulla metodologia storica, alla luce della sfida portata dagli audiovisivi. La crescita esponenziale dei documenti visivi richiede un aggiornamento degli strumenti di lavoro dello storico, un nuovo sapere che appartiene ancora a pochi, con la conseguenza di continuare a tenere relegato lo storico dalla storia in tv. (A mio giudizio c'è anche una competizione corporativa tra giornalisti e storici).
Il nucleo del testo è la storia dei programmi storici televisivi, dove l'iniziale funzione pedagogica della tv si pone in tensione con il condizionamento politico. Quando la pressione politica è più diluita non mancano esempi di programmi rigorosi, come Sapere, ideato nel 1969. La svolta nella proposta della storia in televisione si ha con il programma Trent'anni della nostra storia (1983) in uno scenario mutato dalla televisione commerciale che instilla il codice di spettacolarizzazione anche nei programmi tradizionalmente più austeri. Nel frattempo, complice l'innalzamento del benessere e dell'istruzione, il pubblico non è più la massa indistinta da educare, ma è frammentato e identificabile in quanto fetta di un target e modello di consumo. L'apice della proposta storica, con netti cambiamenti nel registro stilistico, si ha a partire dal 1997 con La Grande storia, dove le immagini travalicano il commento e diventano il centro del programma. A questo proposito l'autrice rileva quanto sia stato importante lo sforzo documentario compiuto dai giornalisti negli archivi, nazionali ed esteri, per proporre filmati inediti, una ricerca che non ha riscontrato un'eguale sensibilità fra gli storici.
Il libro decostruisce i programmi e suggerisce un metodo d'indagine per questi documenti, ripropone interpretazioni già avanzate per la storia del cinema, ma pienamente adattabili alla televisione, circa il doppio valore storico dei programmi e delle immagini; un valore documentario sull'oggetto analizzato, e un valore riflesso sul periodo nel quale è presentato il programma. Più di ogni altro mezzo la storia in tv risente della tensione passato-presente, dove il presente esercita un ruolo primario, con il suo sforzo di continua riattualizzazione del passato. È un'arena dove lo storico non crea il programma ma è solo un elemento che si perde nell'arredo. Il limite della storia in televisione coincide con il linguaggio del medium, dove la rapidità e la semplificazione del messaggio sono inevitabili. L'autrice censura l'idea di programmi a tesi (a questo proposito cita un programma esterno alla Rai, L'altra storia, tra i pochi a essere condotto da uno storico). È un'osservazione pertinente perché la conoscenza storica è complessa per sua natura, ma è un'osservazione da rimodulare dinanzi alle esigenze televisive. È davvero possibile semplificare il messaggio ed evitare una comunicazione per tesi? Non è forse questo il "limite" di alcune puntate di un programma riuscito come la Grande storia?
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