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Su 40 lettere, ben poche mi hanno lasciato qualcosa, quasi nessuna mi ha saputo entusiasmare. Forse mi aspettavo qualcosa di diverso e le mie aspettative sono state deluse.
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Non sempre le antologie funzionano, soprattutto quando sono costruite artificialmente e intorno a un tema, a una sollecitazione che, una volta persa la scommessa, appare pretestuosa e dunque sterile. Non in questo caso, pur assai rischioso. I racconti riuniti e introdotti da Rosalind Porter e Joshua Knelman sono, per buon parte, molto efficaci e ben assortiti. La scelta degli autori alcuni notissimi (Atwood, Coupland, Faber, Lethem, Winterson), altri meno ma tradotti in Italia (Behrens, Dyer, Galgut, Kennedy, Kunzru, Matar, Towes), e altri ancora del tutto sconosciuti è bilanciata al punto da funzionare come campionario di letteratura contemporanea intorno al genere letterario più classico, certamente il più frequentato: la lettera, in particolare la lettera d'amore.
Luogo della confessione, della rivelazione del sé, dell'esplicitazione dell'ossimoro che della carta vuole fare sangue e del sangue carta: "In certi momenti ho voglia di urlare a questa carta da lettera, o di leccarla, di masticarla. Vorrei distruggere la mia debolezza. Ho voglia di spezzare la penna a metà e buttarla dalla finestra", come nella lettera di una moglie a un soldato al fronte, ecco uno stereotipo, recuperato dal canadese Peter Behrens. La lettera d'amore ha dunque lunga vita, forza d'impatto emotivo, persistenza letteraria. Lo dimostrano le pagine perfette, dense, coraggiose della scozzese A.L. Kennedy, dove un'amante scrive a un amato ormai lontano, lo struggimento di una nostalgia ancora non sepolta unita al desiderio che a lui sia andata meglio: "Non ho mai saputo scrive alla fine con certezza in che cosa credessimo, se non l'uno nell'altra, ma dato che io mi sento persa e forse anche tu, prego per noi ogni notte e chiedo che tu sia felice, al sicuro. Per me sarebbe quasi sufficiente." Quasi sufficiente come sarebbe la richiesta di perdono che si trova nella lettera, a tutti gli effetti un microracconto, di Hari Kunzru, dove il senso di colpa di un uomo per avere abbandonato una ragazza in cerca di libertà, una giovanissima ragazza araba di Ammam, di non averle offerto in un'occasione di riscatto ma solo uno sfogo sessuale mal gestito, ha queste parole: "Ti ho sepolta nel profondo, Aisha, il più possibile, finché non è squillato il telefono e una voce ha chiesto, in tono d'accusa, sai chi sono? (
) In quel momento è stato davvero troppo. Non potevo tornare in quel letamaio di colpa e vergogna e ho abbassato il ricevitore perché smettesse di esistere".
Poi ci sono lettere che al registro drammatico preferiscono quello comico, meglio tragicomico, come quella, davvero brillante, di Geoff Dyer, dove un amore troppo legato all'ideologia del tempo finisce perché entrambi non sono stati capaci di ammettere che non erano in grado di leggere Storia e coscienza di classe, o quella di Lionel Shriver, che segue la parabola catastrofica da un punto di vista della strategia amorosa di una ragazza, lasciata dopo un'unica notte di sesso. Meno interessanti sono invece le lettere di due scrittrici del calibro di Margaret Atwood e Jeannette Winterson perché stanno troppo chiuse dentro alle cose che sanno fare: la prima una parodia di un'autopromozione di uno "scriba dell'amore senza età", troppo forzatamente spiritosa, e la seconda una galleria di fotografie di due amanti a Venezia che, pur contenendo frasi come questa: "Se mi amassi questo momento non sarebbe affatto diverso. Se non mi amassi, sarebbe lo stesso, ma io leggo la scena attraverso il tuo amore o non amore per me, come se l'amore fosse una traduzione della vita", risulta oziosamente postmoderna.
Da segnalare ancora le lettere del sudafricano Damon Galgut, un grido straziante di un uomo lasciato da un altro uomo che lo ho forse sfruttato, e quella di Douglas Coupland, che descrive la vita buia, avvelenata, di chi vive senza essere innamorato. "Adesso vivo solo nel mio mondo parallelo senza amore, cercando fonti di luce e chiazze di buio, sperando in un segnale di pericolo o di augurio, chiedendomi se sarà una scintilla o una fiamma (
) sempre profondamente incerto sulla direzione che mi farà prendere, quel segnale, quando arriverà". Camilla Valletti
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