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Il volume offre un tentativo di lettura del lungo e complesso pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005) e dei primi tempi di quello di Benedetto XVI. L'ampiezza delle fonti accuratamente esaminate, frutto di una selezione inevitabilmente drastica e peraltro condotta dall'autore secondo criteri calibrati, a fronte di una mole sterminata di documenti e testimonianze disponibili sul pontificato di Wojtyla, rende il profilo storiografico che ne risulta ben fondato, quantunque aperto a successivi approfondimenti, e consente a Miccoli di individuare e sottoporre a fine analisi alcuni aspetti e problemi centrali del pontificato, la cui importanza riguarda l'intero percorso contemporaneo della chiesa cattolica negli ultimi decenni.
Un elemento peculiare forse decisivo consiste nella forte riproposizione del ruolo del magistero ecclesiastico, e in particolare di quello papale, all'interno della chiesa cattolica e nei confronti della stessa società civile. Allo scopo di rafforzare l'autorità nella chiesa, anche come rimedio a quel pluralismo teologico che si era sviluppato soprattutto nel primo periodo postconciliare, il pontificato di Wojtyla ha riaffermato la piena obbedienza dovuta dai cattolici alle gerarchie ecclesiastiche: in primo luogo in campo dottrinale, dove le maglie sono state strette ulteriormente durante la seconda parte del pontificato, e in particolare con il motu proprio Ad tuendam fidem, fino a fare dello stesso magistero ordinario del papa, quand'anche modificabile in un successivo momento storico e alla luce di un più approfondito e diverso esame degli aspetti sui quali si esercita, un insegnamento cui va assicurato un livello di adesione privo di scarti. Altrettanto è però richiesto, anche in campo sociale e politico, quando siano in gioco principi e temi con implicazioni morali ritenute indiscutibili.
Nei confronti della società civile e degli stati, l'insegnamento e l'opera di Giovanni Paolo II e, fino a questo momento, di Benedetto XVI si sono indirizzati con crescente determinazione verso un superamento della laicità dello stato così come intesa correntemente sul filo della riflessione sviluppatasi a partire dall'Illuminismo, a vantaggio di una "sana" laicità cui spetterebbe riconoscere i diritti morali proposti e interpretati dalla chiesa (e in primo luogo dalle gerarchie ecclesiastiche) come fondamento irrinunciabile delle democrazie, pena il loro scadimento in un relativismo etico capace di portare a orrori e tragedie non dissimili da quelli dovuti al nazionalsocialismo hitleriano o al comunismo sovietico. Questa assunzione dell'orizzonte assiologico delineato da parte della chiesa cattolica, che è stata enunciata verbalmente, non senza oscillazioni e una qualche evidente ambiguità, come scevra dal pericolo di ripresentare un modello di stato confessionale, ha indotto Wojtyla e Ratzinger a proporre di volta in volta l'identità cattolica e quella cristiana come patrimonio collettivo per credenti e non credenti rispettivamente per i paesi a maggioranza cattolica (quale per esempio l'Italia) e per l'Europa comunitaria.
Un altro aspetto essenziale del pontificato di Giovanni Paolo II, su cui Miccoli si sofferma ampiamente, è costituito dal suo insegnamento sulla guerra e sulla pace, la prima sottratta a ogni possibilità di essere giustificata in nome di Dio, ed entrambe ricondotte alla piena responsabilità degli individui, come esiti delle loro scelte.
Se altri studiosi hanno di recente insistito sul carattere nodale del rapporto con il moderno in Wojtyla (per esempio Daniele Menozzi, Giovanni Paolo II. Una transizione incompiuta? Per una storicizzazione storica del pontificato, Morcelliana, 2006), Miccoli, senza sottovalutarne l'importanza, individua tuttavia come centrale, vero elemento peculiare del pontificato, la questione dell'atteggiamento della chiesa nei confronti della storia. È un aspetto e insieme un problema che ritorna da diversi punti di vista: la storia sta al centro dell'analisi sui tempi nei quali si è sviluppato il pontificato di Giovanni Paolo II, segnati da un processo di secolarizzazione interpretato in modo chiaramente negativo come il grande problema della storia contemporanea, a cui occorreva rispondere con una forte riaffermazione pubblica dell'identità religiosa cattolica e del ruolo delle istituzioni ecclesiastiche, partendo da una rilettura del concilio Vaticano II che ne attenuava significativamente gli elementi di discontinuità e di rottura con il precedente percorso storico della chiesa.
Su quell'analisi, da una parte si fondò il rifiuto di intraprendere nuove modalità di presenza della chiesa nel mondo che accettassero di farne un soggetto pienamente consapevole di operare nella storia, all'interno di una reciproca relazione di influenze; e dall'altra parte, e in conseguenza di quella posizione, trovano ragione i moniti e le condanne con le quali furono bloccati da Giovanni Paolo II quei tentativi di rinnovamento che avevano cominciato a svilupparsi nella chiesa negli anni successivi al concilio, sia pure in termini talvolta confusi, per cercare di coniugare l'intelligenza della fede con le istanze poste dalla storia: si trattasse delle esigenze di giustizia sociale, che tra l'altro portarono allo sviluppo della teologia della liberazione in America Latina e indussero la Compagnia di Gesù, sotto la guida di Arrupe, a ripensare i propri programmi e le proprie modalità d'azione; o della necessità di situare l'annuncio evangelico in Europa e nel Nord America assumendo la società secolarizzata come reale contesto storico di riferimento.
Ma la storia è anche oggetto del riesame critico delle "colpe" dei figli della chiesa, avviato per volontà personale di papa Wojtyla con una scelta non poco contrastata da una parte dell'ambiente curiale e dell'episcopato di orientamento più tradizionalista, ma legato a un processo di revisione del passato condizionato dal prevalere del discernimento teologico sull'analisi storica, da un giudizio cioè che si forma prescindendo da quella costante verifica sulle fonti storiche nella quale il discorso storiografico trova le sue esclusive ragioni di scientificità; e insieme segnato dalla riproposizione della secolare concezione della chiesa come immune da errore e assolutamente priva di responsabilità nei confronti delle deviazioni e dei veri e propri tradimenti del messaggio evangelico perpetrate dai suoi membri, quand'anche insigniti delle maggiori cariche e uffici nell'ambito delle istituzioni ecclesiastiche: secondo tale cifra, infatti, Giovanni Paolo II ha declinato i pentimenti e le richieste di perdono avanzati in preparazione e durante il giubileo del 2000.
Nell'insieme l'immagine che emerge dalla poderosa ricostruzione proposta da Miccoli è quella di una chiesa che, sotto la guida di Giovanni Paolo II, e con un'ulteriore accentuazione nei primi tempi del pontificato di Benedetto XVI, ha avvertito la storia presente come sostanzialmente ostile al messaggio religioso, e in particolare al cristianesimo: una storia dalla quale la chiesa, sotto la guida degli ultimi due papi, ha avvertito e sente ancora la necessità di difendersi, per tutelare la fede, come suggerisce il titolo del volume. Si tornerebbe così sia pure in condizioni profondamente diverse rispetto a quelle del secolo abbondante che va dal biennio 1848-49 alla fine del pontificato di Pio XII a uno dei capisaldi basilari dello schema intransigente, con il suo drastico giudizio negativo sulla civiltà contemporanea per la sua pretesa di fondarsi sull'autodeterminazione dell'individuo piuttosto che sugli immutabili principi affermati dalla chiesa cattolica. Giovanni Vian
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