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Se talvolta le raccolte di saggi lasciano la frammentaria sensazione di un rapporto molto meno che sostanziale tra oggetti e metodi che si succedono al vaglio dell'indagine, il libro di Marinella Pregliasco è senza dubbio dotato di un percepibile centro non solo metodologico (il che può apparire più ovvio), ma anche tematico. L'oggetto per propria natura sfuggente dei lavori in esso contenuti è riconducibile a un luogo tra spaziale e mentale che sembra inoltrarsi nel territorio dell'aporia: in cui la contraddizione fra dentro e fuori, prima e dopo non si compone pacificamente, ma resta palesamente irrisolta o - almeno - permette di riconoscere indizialmente significative crepe.
L'ambito è quasi interamente novecentesco (se si escludono i due saggi sulle fonti popolari del gozziano Augellino belverde e sulla figurazione dello spazio nella letteratura odeporica oltremarina di età tardomedievale), ma la contemporaneità è scandagliata alla ricerca di modelli mitici e archetipici che provengono dalle profondità di codici di lunga durata, tra l'antichità classica e quella scritturale. L'intertestualità - come le fitte e fini osservazioni di storia della lingua letteraria - non è lasciata a se stessa, ma ricondotta alle sue radici di campo di tensione in cui si scoprono (o si coprono) i punti caldi delle poetiche: è, insomma, uno strumento di interpretazione, più che il traguardo finale dell'analisi.
Prendiamo il saggio su Caproni (fin qui inedito). Partendo da uno spazio tematico (lo spaesamento) e linguistico (la disidentificazione referenziale dei deittici, la negatività del lessico) si risale alle indubitabili tracce bibliche e a quelle - fortissime - agostiniane (la dis-trazione dall'esistere della poesia caproniana risale - anche - alla regio egestatis delle Confessioni), e a meno prevedibili tessere classiche. La dis-trazione, la manque dell'ultimo Caproni finisce però per risultare di natura immedicabilmente ossimorica - aporetica, appunto - e per questo sideralmente distante dai suoi modelli che realizzano pur sempre un movimento dialettico.
Il rapporto con la tradizione può essere anche meno tensivo (o di una tensione più sottile e riposta), laddove la letteratura è soprattutto difesa nevrotica, assunzione di una maschera: è il caso del terapeutico Ulisse di Saba, in cui Omero (seguito dalle infinite riscritture) è sanità da contrapporre all'angosciosa tragedia dell'esistere. E per certi versi è anche il caso dellÆIsola ungarettiana, a suo modo una vertiginosa epitome di un archetipo letterario antichissimo (sebbene rivisitato soprattutto alla luce delle sue più recenti apparizioni pascoliane e dannunziane), ma rideclinato in una chiave solipsistica pienamente modernista (se vogliamo, di un modernismo difensivamente travestito di antico).
Una nota a parte meriterebbe la raffinata storia e preistoria dell'uso "ermetico" della preposizione a, davvero un maturo saggio di stilistica storica. Ma non posso non concludere con la novità dello studio sul duro e scabro linguaggio di Una questione privata, in cui il lessico preciso - esprimente una visività pre-etica, tale da confinare la sfera patemica tutta nel non detto dietro le parole - e le ossessive strutture di iterazione e antitesi testimoniano, secondo Pregliasco, che il romanzo fenogliano è dramma non dell'assurdo, ma di una geometrica e assoluta razionalità.
P. Zublena è ricercatore di linguistica italiana all'Università di Milano-Bicocca
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