Questo volume allarga il raggio (e approfondisce il taglio) dei ritratti che già erano comparsi in Alfabeto Einaudi uscito da Garzanti nel 2003. Sapiente di pause e sorprese, di dialoghi (ricreati) e di attese (corrisposte), magari a tratti un po' sovrappeso per esuberanza di carattere, ma del tutto corrispondente al detto latino hominem pagina sapit, la scrittura di Davico trova qui una perfetta consonanza di intenti e di dettato. Tra i tanti volumi, antologici e non (di saggistica e di storiografia soprattutto teatrale) che Davico ha scritto, è forse questo il libro più suo, più interamente suo: il libro (a non voler essere troppo enfatici) di una vita di lavoro passata per un buon tratto al torchio editoriale di un uomo di genio più ancora che d'ingegno come Giulio Einaudi, con cui Davico mostra di avere intrattenuto il rapporto più splendidamente controverso della sua vita intellettuale e professionale (del "divo Giulio" un ritratto per frammenti, qua e là saltellante e saettante, che basta la Postilla a testimoniare). Prima che una galleria di ritratti, il libro potrebbe essere letto tra le righe come l'autoritratto psicologico e intellettuale del suo autore: un'"autobiografia per ritratti interposti", volendo parafrasare quanto Davico dice a proposito delle antologie di personali letture che Bollati aveva chiesto ad alcuni scrittori di preparare (viene da lì ad esempio, La ricerca delle radici di Primo Levi). Ecco dunque farsi strada la voracità (di libri), la curiosità intellettuale, la passione e l'impazienza di conoscere, la denuncia di certe debolezze: sfacciato, gaffeur, impertinente, un po' manicheo, un po' "professorino" (il "côté professorino" di cui parlò per lui Calvino), poco o niente intuitivo, di scarna o scarsa immaginazione, in certi casi non indenne da "viltà". Ma anche il riconoscimento di certe virtù: preciso, ordinato, economo, puntuale, memorioso, antiteorico, antiretorico, concreto, chiaro, diretto, polemico. Per non dire dell'orrore del perdere tempo che è compagno di una strepitosa capacità di lavoro, dote corrispondente alla dichiarata e più volte convocata "piemontesità", di cui fa parte (a proposito dell'entrata in Einaudi) l'immancabile understatement di un'ammissione cruciale: "io m'apprestavo, con scarsi meriti per la verità, a entrare in questa eletta schiera". Che fa buon paio con la prontezza a presentarsi in una circostanza speciale come non più che "il quarto violino" di ben scelta orchestra. Tantissimi i ritratti (113 se non ho contato male), da Adorno a Yourcenar, passando per Antonioni, Foucault, Gadda, Levi (Primo e Carlo), Mila, Miller, Pasolini Queneau, Sereni, e così via. Primi fra tutti i sodali dell'Einaudi, da Calvino a Vivanti, sostando forse più a lungo e con più lungo affetto su Giulio Bollati, a cui è destinato il più bel movimento della numerosa sinfonia. Poi i sapienti (i savants, i maestri di color che sanno) da Cantimori a Vittorini, da Contini a Dionisotti, da Muscetta a Pavese. E infine la più fitta schiera degli invitati al banchetto di un catalogo di favolosa fattura, costruito attraverso scelte mirate ma qualche volta anche per grazia (e a volte dannazione) di guizzi casuali che sparigliano tattiche e strategie. Così facendo, Davico racconta, sì, il catalogo come risultato di articolati esercizi di avvistamento, di proposte, di analisi incrociate, di ponderate riflessioni e di intelligenti e meditate acquisizioni, ma anche come il frutto dell'istante, della forza a volte perversa del destino, del classico coup de dés che non abolirà mai l'hasard (e in questo senso il ritratto del "simenoniano" Gaston Gachet è una finissima interpretazione di due parti che non si parlano se non in un equivoco di dialoghi impossibili). Aneddota, dialogista, moralista (in senso classico), Davico non manca certo di arguzia, ironia, e anche autoironia (evidente quest'ultima nel ritratto di Natalia Ginzburg, che a fronte di un'eloquenza di boccacciana testura oppone la ben più eloquente ragione del sopore invincibile da cui la signora è presa in un dopocena non privo di qualche imbarazzo). Fervida pinacoteca di ritratti verbali, elegante quadreria di parole, ekphrasis di volti e di figure, che Davico disegna, cesella, scolpisce, mostrando particolari riguardi per gli uomini della sua passione dominante che è il teatro (tanti i convocati, da Beckett a Eduardo, da Brecht a Kezich, da Pinter a Genet, da Testori a Gerardo Guerrieri, senza dimenticare Ionesco). Fino al pungentissimo cammeo della "bellissima Veronica Lario" alla prima torinese del Magnifico cornuto (21 novembre del 1979) che non mostrò d'essere propriamente una grande attrice. Galleria di defunti. Galleria di viventi. Non tanto o non solo perché viventi nelle loro imprese, ma viventi (almeno per un momento) in questo salone degli "antenati", in questo alfabetiere di elevato alfabetismo. Una vera e propria "vertigine della lista": persone qualche volta insopportabili, persino antipatiche, ma capaci di rivelare a tratti qualcosa di decisivo. Vertigine, dunque, e dubitose verità: come nel caso emblematico e non poco ambiguo di Lacan, genio o circense. Giovanni Tesio
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