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L' ingannevole sponda. L'alcool fra tradizione e trasgressione
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1991
Libro universitario
176 p., ill.
9788843006939

Voce della critica


recensione di Monteleone, R., L'Indice 1992, n. 6

Sappiamo bene in quali remoti recessi della storia e della memoria affondano le radici della cultura e del rituale del vino e di altre consimili bevande alcoliche. Per rintracciarle Cottino deve rimontare ben addietro nei secoli, nei millenni, recuperando in rapide sintesi trame e metafore rivelatrici, cosa come sono addensate nei miti e nelle religioni di più vetusto retaggio (l'epopea di Gilgamesh, il culto di Osiride, il mistero di Dioniso, il Vecchio e Nuovo Testamento...).
Il lettore deve sapere che "questo non è un libro sull'alcolismo, n‚ un libro sulla storia delle bevande alcoliche"; l'intento è, piuttosto, di "descrivere alcuni modi nei quali gli esseri umani hanno vissuto, e tuttora vivono, le bevande alcoliche".
Nel loro uso, discreto o smodato che sia, c'è una varierà sorprendente di valori e segni simbolici. Il vino, la birra, lo snaps, alle diverse latitudini producono ebbrezza, danno la stura alla gioia di vivere, alla voglia di socialità, al bisogno universale della comunicazione. Ma vi traspare anche il gusto della trasgressione, simile a quella che erompe vistosa nelle feste popolari, così apparentate agli eccessi della violenza, massime in tempi carnevaleschi, di effimeri mondi e ruoli "rovesciati".
Nei paesi mediterranei, a tutti i livelli sociali, esiste una fede robusta nel valore alimentare e perfino medicamentoso del vino. Tra le tante fonti Cottino cita il "Trattato della natura dei cibi e del bere" di quel tal Pisanelli che al principio del XVII secolo rallegrava l'umanità con questa buona novella: "il vino rosso genera buon sangue, leva la sincope e fa vedere sogni grati la notte".
Una caterva di proverbi, solitamente attribuiti alla saggezza plebea, sopravviene per lungo tempo a surrogare la fiducia in tanta virtù nutritiva e taumaturgica. "Le preferenze alimentari sono uno dei pilastri dell'identità culturale", ha scritto uno specialista del genere come André Burguière, e tutto ciò che le disavvezza contro genio (impoverimento, divieti) diventa causa in atto primo del malessere di gruppi o di intere classi sociali.
L'opinione concorde degli storici dell'alimentazione è che questo valga in modo speciale anche per il vino e altre bevande alcoliche di consumo esteso e corrente. L'uso di alcolici ha dunque attinenze assai strette col tipo di potere e di cultura dominante.Cottino ne fissa le varianti in una mappa planetaria dove trovano posto le culture iperpermissive, tolleranti anche dell'ubriachezza (Francia, Giappone), quelle permissive (degli italiani, degli ebrei) che ne ripugnano pur indulgendo coi consumi individuali, quella astemia dei musulmani e quella ambivalente dei paesi anglosassoni e scandinavi.
Lo stile del bere si è evoluto nel tempo come uno "stile di vita". L'ereditarietà ha certo giocato la sua parte in questa vicenda e nell'insorgere dell'alcolismo: ma non va considerata un fattore determinante, non più, o semmai meno, di quelli sociali, culturali, ambientali, cui in questo libro sono giustamente dedicati alcuni dei capitoli di maggior respiro.
Anche Ulrich Wyrwa, uno storico tedesco molto addentro nello studio di questa materia, si è interessato alle diverse modalità di assunzione degli alcolici e al loro singolare intreccio coi rapporti tra le classi, i sessi e le generazioni. All'origine c'è una cultura agreste del bere, ritualizzata nei campi e nelle aie, in un generale coinvolgimento di uomini e dorme, gio.vani e vecchi, obbedienti a un codice uniforme di comportamento. La comunità contadina tollera le sbornie festive come occasioni di spasso collettivo, preferisce sbertucciare il ciucco di turno piuttosto che rabbuffarlo con disprezzo.
Nella cultura artigiana, invece l'assunzione di 'alcolici rientra nella vita di locanda, dove si consuma la separatezza tra i sessi e le generazioni. Rispetto al costume contadino c'è una maggiore castimonia che rende la società artigiana molto più insofferente del modello di consumo "plebeo", sbardellato e degradante.
Da questo modello anche la cultura proletaria del bere si è dissociata. Vi si manifesta una predilezione, in genere, per bevande a minor tasso alcolico, consumate in nuove forme conviviali, attorno ai tavoli o ai banchi dello osterie, o estaminets, o pubs, o Brauhauser... Qui i lavoratori si riversano assetati non di solo vino. La tetraggine delle condizioni abitative li spinge in questi locali come fossero un'"altra casa", più vera, più calda e accogliente, dove gustare senza veti o sorveglianze, il sapore dei rapporti confidenziali, in un fluido di parole serpeggianti tra boccali di birra o brocche e calici di vino razzente, stagno e senza nome.
Anche dalle pagine di questo libro esce confermata l'idea che gli operai non abbiano visto nell'alcol una minaccia ineluttabile alla loro salute o al loro tenore di vita, ma un indice di benessere da difendere con fermezza. Questa convinzione si fece strada proprio mentre l'alcolismo prendeva dimensioni di massa, in concomitanza, se non proprio a causa dell'industrializzazione e dell'inurbamento che l'accompagn•.
La "questione alcolica" sembrò diventata esplosiva e gettò l'allarme nei pubblici poteri. Successe come se di colpo si fosse scoperta la faccia spettrale dell'alcol, la sua minaccia devastante alla morale, alla salute e all'ordine pubblico. Per usare un'indovinata metafora di Cottino, la guardia, il prete e il dottore si mobilitarono contro il male dilagante; e quando se ne avvertì il pericolo anche per la produttività nel lavoro, la coalizione antialcolica trovò un altro prezioso alleato nel padrone di fabbrica.
Cominciò allora un vasto movimento per la temperanza, appoggiato a società intrepide (e un po' petulanti), che invocavano dai politici una legislazione restrittiva e punitiva, fino alle soglie del proibizionismo. In questo libro si ripercorre l'itinerario legislativo italiano, dall'unità al secondo dopoguerra, come studio di un caso per molti versi esemplare. Nel corso di un secolo lo stato è passato da un interesse essenzialmente fiscale a pesanti misure eccezionali di controllo e di contenimento dei consumi alcolici, sotto l'assillo dei fenomeni criminosi, dei problemi igienici e di sicurezza sociale.
La società si è difesa scaricando sull'ozio e sulla crapula nelle osterie tutte le ragioni della miseria. In quei luoghi di perdizione, tuonavano i moralisti, la gente del popolo si imbietolisce o diventa ribaldaglia pronta a menar le mani per strade e piazze. Ci fu chi, volpinamente o per fanatismo, propose di ridurre feste e salari, lamentandosi che il troppo tempo libero e il soldo soverchio in saccoccia inducessero gli sfaccendati a gettarsi nell'orgia o a aggarugliarsi tra loro, da avvinazzati, in risse indecenti. Presi nel vortice della crociata moralizzatrice, anche i socialisti entrarono nella campagna antialcolista. "Libro contro litro!" predicava Turati, trascinandosi dietro zelanti propugnatori della virtù dell'astinenza, come l'on. Adolfo Zerboglio. Tra i lavoratori vi fu grande sconcerto e, come spesso accade, la loro reazione prese la forma dello sberleffo popolaresco. C'è stato un tempo, nei primi anni del secolo, in cui nelle bettole bazzicate dai nostri operai gli avventori si misero a ordinare uno "zerboglino", dandosi allegramente di gomito e ammiccando all'oste, abbastanza infurbito da tradurre lestamente il messaggio in un gotto colmo di vin bianco o rosso.
Nel secondo dopoguerra, dice Cottino, si è aperta la stagione più liberale in tema di questione alcolica, pilotando più sul miglioramento qualitativo del bere che non sulla dannosità del suo abuso. Le statistiche recenti sui consumi di bevande alcoliche incoraggiano un discreto ottimismo. Tra il 1969 e la metà degli anni ottanta il consumo di vino in Italia risulta scemato da 116 a 90 litri a testa. Tra gli anni cinquanta e ottanta l'incidenza delle bevande alcoliche sulle spese alimentari è caduta dall'11al 6 per cento. Rallegriamoci di queste chiuse conclusive di questo libro e in particolare del salutare mutamento di gusto dei giovani, distratti più che in passato dagli eccessi del vino grazie al sopravvento di nuovi modelli (anglosassoni, americani) del bere, e soprattutto agli effetti inibitori delle campagne dietetiche e salutiste, che ci martellano da tutti i canali della comunicazione di massa.

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