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Gli inglesi e l'indiano. Racconto di un'invenzione (1580-1660)
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Dettagli

1992
1 gennaio 1992
XII-250 p.
9788876941047

Voce della critica

JENNINGS, FRANCIS, L'invasione dell'America, Einaudi, 1991
CRONON, WILLIAM, La terra trasformata. Indiani e coloni nell'ecosistema americano, Selene, 1993
BARTOCCI, CLARA, Gli Inglesi e l'Indiano: racconto di un'invenzione, Edizioni dell'Orso, 1992
recensione di Fiorentino, D., L'Indice 1993, n. 9

Le celebrazioni colombiane del 1992 hanno lasciato all'Italia ben poco se non alcune mastodontiche opere civili pensate, e non sempre realizzate, per rendere omaggio a quel viaggio. Viaggio che secondo molte interpretazioni rappresenta simbolicamente il passaggio dal "vecchio mondo" al "mondo nuovo", la transizione verso la modernità.
A darci però il senso di questa trasformazione non sono tanto le cerimonie o i discorsi celebrativi quanto alcune pubblicazioni che prendono in esame il contatto dell'Europa con il nuovo mondo (nuovo per chi? bisognerebbe chiedersi innanzitutto), il cambiamento di prospettiva sul mondo e sull'uomo che quel viaggio innescò in Europa e che si sarebbe sviluppato per secoli, da quel momento, passando per le esperienze di navigatori, missionari, uomini d'arme, politici e semplici coloni o emigranti.
Ognuno andava ad aggiungere qualcosa al mondo europeo della conoscenza, così come ognuno di quegli indigeni incontrati dagli europei in America vedeva trasformare su di sé e in sé la realtà che lo circondava, compreso il suo modo di porsi di fronte a quella realtà, il suo atto del conoscere, il suo stesso immaginario.
È proprio con l'immaginario di quegli europei che nel Seicento entrarono in stretti rapporti con gli abitanti della costa nord-orientale degli attuali Stati Uniti che si trovano a fare i conti gli autori dei tre volumi qui recensiti. Era tempo che in Italia si attendeva di vedere una maggiore attenzione al fenomeno dell'incontro di culture nel Nord America.
Il 1992 ha fatto sì che dell'incredibile mole di lavori prodotti sull'argomento negli Stati Uniti ne venissero tradotti almeno due: un classico come quello di Francis Jennings, oggi in parte superato dai più recenti studi di etnostoria, e il fondamentale saggio di William Cronon sulla trasformazione dell'ecosistema del New England nel Seicento. Cronon riesce a dare conto, facendo affidamento anche sulle fonti classiche dei resoconti di viaggiatori e coloni comuni ai lavori di Jennings e di Clara Bartocci, di quel processo di trasformazione dell'ambiente, artefice e vittima dell'incontro e dello scontro di due modi di vedere il mondo, la natura e il posto occupato dall'uomo nel mondo. Gli studi di botanica, di antropologia e scienze umane diventano per l'autore altrettanti puntelli su cui poggiare i due assunti principali di un libro che ha aperto orizzonti nuovi all'interpretazione del contatto tra culture: 1) l'ambiente in cui i coloni si vanno ad insediare, lungi dall'essere quello spazio vuoto ('vacuum domicilium'), il cui concetto è così ben descritto da Jennings e Bartocci, era profondamente toccato dalla presenza dell'uomo. Questo ne aveva spesso stravolto anche la primordialità delle origini, nonostante le convinzioni dei coloni, dando l'avvio ad un processo di trasformazione del paesaggio che venne accelerato dalla presenza degli europei; 2) la trasformazione del territorio imposta dai coloni aveva dei fini ben precisi, già contenuti 'in nuce' nelle prime relazioni scritte sul New England.
L'assetto sociale e politico che si andava costituendo in America, per quanto originale e innovativo, non era il solo ispirato a una realtà europea. I coloni non persero mai di vista il mondo lasciato alle spalle e, nei loro scritti, riproducevano un ambiente americano affatto simile a quello del paese di origine, dove la vegetazione portava gli stessi nomi di specie conosciute in Europa.
Cronon chiama questa trasposizione una "confusa nomenclatura" che ha indotto in errore scrittori come Thoreau e studiosi dell'ambiente. In realtà, come si evince dai tre lavori, gli europei che descrivevano l'America, il suo ambiente e i suoi abitanti, compivano uno sforzo di immaginazione grazie al quale riuscivano a riportare caratteri ben conosciuti a un mondo ignoto. Si metteva in atto un processo di 'inventio' nel suo doppio significato di ritrovamento o scoperta e facoltà inventiva, basato però sull'esperienza.
È qui che l'immaginario entra in gioco. Quel complesso astratto di simboli, riferimenti alla realtà, astrazioni filosofiche e stereotipi, era essenziale ai coloni per definire l'ambiente nuovo in cui si muovevano, per definire se stessi e quegli "altri da sé" che risultavano essere niente altro che la loro stessa immagine.
Studi come quello di Cronon aiutano non solo ad assumere altri punti di vista sulla realtà del fenomeno coloniale ma a penetrare più a fondo i processi mentali in atto al momento dell'incontro e del contatto tra culture. Clara Bartocci è ben cosciente di questo e titola il suo libro in modo molto esplicito: "Racconto di un'invenzione". Nella sua analisi dei testi letterari prodotti dagli inglesi avventuratisi o insediatisi nelle colonie americane tra il 1580 e il 1660 Bartocci rintraccia alcuni modelli che si rivelano essenziali per descrivere gli indiani. Modelli preesistenti al contatto informano la letteratura, di propaganda o celebrativa, prodotta nella Nuova Inghilterra. "L'europeizzazione dello spazio fisico americano - scrive Bartocci - il misconoscimento dell'identità umana dell'abitatore di quello spazio, la mutazione socio politica delle nuove comunità in esso insediate rispetto alla patria d'origine, sono dunque questi gli elementi costitutivi del processo di invenzione dell'America settentrionale anglofona". Dell'indiano, comunque, quegli inglesi non danno soltanto un'identità disumanizzata. È vero però, come sottolinea la Bartocci, che anche quando ne è riconosciuta l'umanità gli indigeni sottostanno, secondo i puritani, a quelle regole basale sull'autorità delle Sacre Scritture che li relegano a figure oscure, di contrasto e strumentali all'affermazione di quel popolo "eletto da Dio" che i puritani pensavano di incarnare. Comprendere d'altronde la personalità degli indiani del Seicento non è davvero cosa facile per un autore contemporaneo. Si tratta di compiere uno sforzo di approssimazione che attraverso strumenti diversi, dalla lettura di manoscritti alla ricerca archeologica allo studio delle specie vegetali dell'epoca, consenta di ricostruire realtà molto diverse da quella dello studioso. Jennings va alla ricerca delle modalità dell'incontro saggiando punti di vista diversi da quello più tradizionale europeo. Lo fa però affidandosi soprattutto alle fonti euroamericane tradizionali così da incappare spesso nella stessa visione eurocentrica che tenta di aggirare. Secondo Jennings gli indiani avevano dunque un evidente "complesso di inferiorità" rispetto alla tecnologia europea che volevano condividere, mentre lo scambio di beni avviene non solo su prodotti inutili ma anzi su oggetti utili all'economia indigena. L'idea dell'oro in cambio di fondi di bottiglia e specchietti è, per fortuna, da lungo superata. L'analisi della società indigena offerta da "L'invasione dell'America" non riesce, tuttavia, a staccarsi di molto da alcuni assunti sull'identità umana considerati universali: i processi di scambio, il potere e la famiglia finiscono per essere letti in chiave fondamentalmente eurocentrica. L'etnostoria, alla quale Cronon si affida come complemento alla sua storia dell'ecologia, ha dimostrato invece di poter consentire una lettura in grado di avvicinare quella realtà indigena che costituiva l'altra faccia di un incontro artefice di profondi mutamenti sia in Europa che in America. Quello di Jennings rimane un tentativo compiuto in direzione di quell'approccio proprio dell'etnostoria capace di mettere a confronto non solo due modi di fare la guerra e di concepire le relazioni umane, ma anche due sguardi sul mondo e sulla vita profondamente differenti. La storiografia americana continua a produrre studiosi dotati di notevole immaginazione storica e di indubbia competenza che offrono nuovi sguardi su un aspetto della storia nordamericana ormai ritenuto fondamentale per capire la natura stessa degli odierni Stati Uniti. Recentemente "The Ordeal of Le Long House" (Chapel Hill 1992) di Daniel Richter ha mostrato fin dove si può spingere lo studioso dell'incontro di culture nella ricerca delle conseguenze che il contatto nel Nord America ebbe per le culture indigene e per gli europei che vi si insediarono.

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