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recensione di Vitale, E., L'Indice 1996, n. 1
Il volume raccoglie i contributi che storici e insegnanti hanno presentato al convegno "Shoah e deportazione nella didattica della storia" tenutosi a Torino nell'aprile del 1993. È costituito da due sezioni: nella prima si passano in rassegna critica le questioni etiche e storiografiche sollevate dalla mostruosità di un evento che sembra eccedere la capacità di comprensione e spiegazione della ragione umana - questioni che si raccolgono ormai tradizionalmente nella domanda intorno alla paradossale unicità di Auschwitz, su cui si interroga soprattutto Jean-Michel Chaumont; nella seconda si illustrano possibili efficaci approcci didattici a un tema su cui - proprio perché coinvolge la nostra sensibilità più profonda, risvegliando forse tanto l'atavico orrore quanto il viscerale pregiudizio nei confronti dell'ignoto e del diverso - si rischia di ottenere l'effetto opposto a quello auspicato, l'oblio anziché la memoria, o, ed è la peggiore quanto la più realistica delle previsioni, la trasformazione della memoria da impegno collettivo consapevole in rito che lascia indifferenti le coscienze. Un analogo risultato perverso, come suggerisce Anna Bravo, viene spesso raggiunto attraverso i grandi mezzi di comunicazione, che producono sull'argomento un'emozione tanto intensa quanto passeggera.
Da una forma di sacralizzazione così come di spettacolarizzazione può passare, intenzionalmente o meno, la normalizzazione tanto invocata dai revisionisti alla Nolte e alla De Felice, che addirittura possono spacciare la loro presunta obiettività di storici distaccati come vittima di un insulso senso di colpa nazionale o della vulgata resistenziale. E una volta scomparsi i testimoni dell'orrore, la storia della deportazione - ma vi aggiungerei: la storia complessiva di che cosa fu il nazifascismo - rischia di divenire, come sottolinea Enzo Collotti, un oggetto da museo, rendendo tutt'altro che implausibile l'ossessione condivisa da Primo Levi e Theodor W. Adorno: "I meccanismi sociali, politici e psicologici sfociati nel genocidio degli ebrei - riassume efficacemente Traverso - possono riprodursi oggi, sebbene in un contesto mutato e su scala diversa, colpendo in primo luogo altre minoranze indifese, esposte all'intolleranza, alla xenofobia e alla violenza razzista: gli immigrati, i neri, gli arabi, gli omosessuali, gli 'antisociali'".
Il libro nasce dalla scuola e per la scuola, ma il suo significato è assai più ampio, poiché tutti dovremmo essere chiamati a "insegnare" Auschwitz alle generazioni successive, ai nostri figli e nipoti. Ma che cosa significa veramente "insegnare Auschwitz", sottraendolo a una sorta di inevitabile understatement cui lo condanna una sua considerazione soltanto come mero, per quanto imprescindibile e fondamentale, argomento di studio? E, al tempo stesso, che cosa si deve apprendere come uomini, ancora prima che come studenti, insegnanti o studiosi, a partire da Auschwitz? A questi interrogativi tenta di dare una risposta il saggio di Yannis Thanassekos, "L'insegnamento della memoria dei crimini e dei genocidi razzisti. Per una pedagogia dell'autoriflessione". Quell'estremo del male è una grande occasione per gli insegnanti (ma forse per tutti in quanto uomini e cittadini) di tornare a riflettere, innanzitutto con se stessi, sui valori originari della modernità, sui valori fondanti della civiltà liberale e democratica.
In particolare, sull'individuo come soggetto dotato di autonomia di giudizio, il quale, pur essendo consapevole di essere nato in un determinato contesto storico, sa sottoporre a critica costante, e se del caso radicale, le pratiche, i costumi, le istituzioni che costituiscono il suo "mondo della vita". Auschwitz è stata generata da una progressiva anestetizzazione dello spirito critico e del principio di autonomia, fino al suo completo oscuramento nel totalitarismo nazista, e dalla sua sostituzione con forme di coscienza reificata, ovvero di abbassamento dei singoli individui e dell'umanità nel suo complesso al rango di cose, strumenti: "Educare contro il principio di Auschwitz significa dunque rintracciare, inseguire, in noi stessi e in tutte le attività sociali, le molteplici manifestazioni e infiltrazioni di questo genere di coscienza che degrada gli altri e noi stessi - in modo insidioso e impercettibile - al rango di mezzi e di cose. Noi viviamo sempre in contesti di vita nei quali Auschwitz è stata resa possibile".
Per tentare di dar significato e dunque di spiegare Auschwitz, fuori dalla retorica e dalla commemorazione, occorre che nella civiltà occidentale del terzo millennio abbiano in qualche modo voce degli eretici, degli "illuministi radicali", capaci di "prendere le distanze dal mondo così com'è e non giocare il suo gioco".
Con una riflessione di carattere più storico, ma con intenti sostanzialmente simili, anche Chaumont intende l'"insegnare Auschwitz" come l'occasione pressoché irripetibile di più matura e definitiva affermazione del pensiero critico contro ogni forma di conformismo culturale e sociale: "Auschwitz oblige? Sì, Auschwitz obbliga a un rapporto nuovo con la storia, un rapporto critico con la totalità del passato che ha fatto di noi quelli che siamo". E l'obbligo nei confronti dell'estremo dell'orrore si adempie soltanto "col fatto di segnare una svolta nella storia": "Se non riusciremo a presentare la memoria di Auschwitz in una configurazione davvero capace di convincere i nostri interlocutori che essa ha realmente l'importanza che le accordiamo, se fra trenta o cinquant'anni Auschwitz non dovesse significare per le generazioni future molto più di Verdun... la colpa sarebbe nostra e, al di là di ciò, si tratterebbe per tutto il genere umano di un'occasione perduta".
La scommessa di Thanassekos e Chaumont, a voler giudicare dalla mercificazione imperante e dalla contraffazione della verità dominante in ogni aspetto della vita privata e pubblica, ha ben poche probabilità di esser vinta. Anzi, scorrendo anche distrattamente le pagine dei giornali, Auschwitz sembra già, e non solo in angoli remoti della terra, un'occasione perduta. "Dal canto mio - conclude il suo saggio Chaumont - non posso far a meno di rabbrividire se penso a ciò che sarà necessario perché si presenti una nuova occasione: se non è bastata Auschwitz, che cosa ci vorrà?".
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