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Intersoggettività e lavoro clinico. Il contestualismo nella pratica psicoanalitica - Donna M. Orange,George E. Atwood,Robert D. Stolorow - copertina
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Descrizione


Il volume fornisce esempi clinici e chiarimenti teorici sul modo di operare dei più importanti esponenti della prospettiva intersoggettiva. Questo modello propone una pratica clinica assai innovativa che si è rivelata essenziale nella terapia di molte patologie gravi. Alcuni concetti analitici fondamentali vengono trasformati o superati nella ricerca di un metodo sempre più vicino all’esperienza del paziente e alla realtà affettiva dell’incontro tra paziente e analista. -

 

Gli autori

Donna M. Orange è analista didatta all’Iinstitute for the Psychoanalytic Study of Subjectivity di New York.

George E. Atwood è professore di Psicologia alla Rutgers University.

Robert D. Stolorow è professore di Psichiatria alla UCLA School of Medicine.

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Dettagli

1 febbraio 1999
XIII-110 p.
9788870785593

Voce della critica


recensioni di Mancia, M. L'Indice del 2000, n. 02

Questo libro riassume una tendenza della psicoanalisi nordamericana che si basa su un modello relazionale dello sviluppo e della relazione analitica in contrapposizione al modello pulsionale classico. Il modello relazionale comporta un contestualismo intersoggettivo le cui radici sono nel movimento psicologico noto come personologia, che si fonda sull'idea che la conoscenza della personalità umana può derivare solo da uno studio della persona nella sua individualità.
Il libro si articola in cinque capitoli. Nel primo viene definita la teoria dell'intersoggettività: una psicoanalisi che "cerca di illuminare i fenomeni che emergono all'interno di uno specifico campo psicologico costituito dall'interazione di due soggettività: quella del paziente e quella dell'analista".
La psicoanalisi consisterà nella mutua creazione di un campo intersoggettivo caratterizzato da uno "scambio reciproco di transfert e controtransfert (...) e dall'attività organizzatrice sia del paziente che dell'analista all'interno dell'esperienza analitica". La responsabilità per la creazione del "campo sarà allora dell'analista non meno che del paziente in quanto l'analista è invitato ad unirsi all'altro nello spazio intersoggettivo". Precisano gli autori che "sebbene l'analisi sia sempre per il paziente, la storia emotiva e l'organizzazione psicologica del paziente e dell'analista sono egualmente importanti per la comprensione di qualsiasi scambio clinico". Ergo, molto di ciò che avviene in analisi dipende dall'analista, dal suo modo di porsi, dalla sua sensibilità e cultura, oltre che dalle sue emozioni. Che relazione ha la teoria intersoggettiva con la teoria del campo di Willy e Madeleine Baranger? A me sembra che le differenze siano minime, se ce ne sono. Ambedue appartengono alla teoria relazionale, in ambedue sia il paziente sia l'analista partecipano alla formazione del campo e hanno reciproche responsabilità per l'andamento del processo, in ambedue sembra che la realtà psichica dell'analista e la sua storia affettiva siano determinanti nel condizionare il transfert del paziente, come se l'analisi personale dell'analista non fosse in grado di aiutarlo nell'elaborazione e trasformazione di parti della sua personalità in maniera che queste non interferiscano con la libera espressione del transfert del paziente e con la sua possibile trasformazione.
Il secondo capitolo del libro è dedicato alla critica del concetto di tecnica e alla sua sostituzione con l'idea della psicoanalisi come forma di pratica. Gli autori propongono che la psicoanalisi sia considerata, anziché una tecnica, una forma di pratica, nel senso aristotelico, alla base della quale viene proposta una self-disclosure intesa come un auto-rivelarsi da parte dell'analista, cosciente e deliberato. Ma la famiglia psicoanalitica - dicono gli autori - è poco spontanea e poco propensa a esprimere se stessa mentre, nel campo intersoggettivo, i due mondi soggettivi dell'analista e del paziente continuamente si autorivelano e si autonascondono.
Il terzo capitolo è dedicato a confutare il mito della neutralità, di cui vengono evidenziati gli aspetti illusori e difensivi. Per gli autori, molti analisti rivendicano la neutralità "quando le attribuzioni transferali dei loro pazienti minacciano qualche caratteristica essenziale del loro senso di sé". È necessario invece prendere coscienza del fatto che "tutto quel che l'analista fa e dice - ed in modo particolare le interpretazioni che egli dà - sono prodotti della sua organizzazione psicologica e svelano al paziente aspetti centrali della personalità dell'analista".
Lo stesso discorso vale per un altro mito che domina la psicoanalisi: quello dell'astinenza. Astinenza dall'agire da parte del terapeuta ma anche come deliberata frustrazione dei desideri e bisogni del paziente. Per gli autori, "la costante astinenza da parte dell'analista altera decisamente il dialogo terapeutico provocando ostilità e conflitti tempestosi che sono più un artefatto della posizione dell'analista che non una manifestazione genuina della psicopatologia primaria del paziente".
Le interpretazioni di transfert diventano, su questa base, oggetto di attacco frontale, e così pure il mito del transfert non contaminato. L'idea infatti che interventi extra-transferali da parte dell'analista (come rassicurazioni, gratificazioni o suggestioni) "contaminino" il transfert al punto da renderlo non analizzabile non convince gli autori - che anzi contestano l'ipotesi stessa che il transfert possa esistere in forma "pura" cioè non "contaminata" da parte dell'analista "neutrale". Ma gli autori vanno oltre e affermano che l'interpretazione può essere equiparata a una conversazione: "il transfert è co-determinato sia dai contributi dell'analista che dalle strutture di significato all'interno delle quali il paziente li assimila (...) qui proponiamo che il controtransfert (...) abbia un impatto deciso nel formare il transfert. Il transfert e il controtransfert insieme formano un sistema intersoggettivo di influenza reciproca e mutua". Detto così non è facile accettare l'idea che il controtransfert sia il motore dell'incontro analitico e determini secondariamente il transfert del paziente.
Nell'attacco ai miti della psicoanalisi classica non poteva mancare quello al mito dell'oggettività. Gli autori si appellano a un principio democratico: "dalla prospettiva intersoggettiva (...) le percezioni dell'analista non sono intrinsecamente più vere di quelle del paziente (...) gli analisti debbono riconoscere l'impatto delle loro cornici di riferimento sia nel limitare la loro capacità di cogliere i mondi soggettivi dei pazienti, sia nel co-determinare il corso del processo analitico". Giusto. Come è peraltro condivisibile l'idea che non sia possibile decretare se un paziente è analizzabile o no sulla base di una valutazione "oggettiva" della struttura della personalità del paziente. L'analizzabilità infatti è una proprietà del più complesso sistema analista-paziente.
Il quarto capitolo riporta i contesti del "non-essere" e discute casi clinici minacciati da esperienze di annichilimento della persona. Per i teorici dell'intersoggettività, il delirio è il risultato di un'invalidazione radicale che avviene in un certo contesto, "all'interno del quale il senso individuale di avere percezioni e sentimenti con una qualsivoglia validità va gradualmente dissolvendosi e perdendosi". È chiaro che questa concezione del delirio si distanzia notevolmente da quella classica, per la quale il delirio è una modalità difensiva che distoglie il soggetto da una realtà troppo dolorosa per lui.
Il presupposto operativo è che il punto di vista intersoggettivo contestualizza l'intrapsichico. Questo perché "l'esperienza personale è descritta come fluida, multidimensionale e squisitamente sensibile-al-contesto, con dimensioni multiple dell'esperienza che oscillano tra primo piano e secondo piano, tra figura e sfondo, all'interno di un campo intersoggettivo - in continua evoluzione - di influenza mutua e reciproca".
Per concludere: il contestualismo è anti-tecnico per eccellenza. Esso si fonda su un atteggiamento dell'analista verso il paziente che è tale da tenere aperte varie possibilità di significato alle varie esperienze del passato. Il contestualismo pertanto non è una teoria né una pratica clinica, ma si basa su una sensibilità particolare aperta a vari orizzonti. Esso si caratterizza anche per il fallibilismo, che facilita - a parere degli autori - l'aspetto giocoso dell'incontro analitico. La teoria è suggestiva soprattutto per chi lavora su una base teorica legata al modello relazionale. Tuttavia molti sono gli eccessi e le posizioni acritiche rispetto agli aspetti più delicati della relazione analitica. Su alcuni punti mi sono già soffermato.Vorrei ribadire la mia difficoltà ad accettare ipotesi di lavoro che prevedano situazioni simmetriche e conversative tra paziente e analista, oppure una totale assenza di neutralità specie su questioni che, a volte, vanno al di là del transfert e che spesso richiedono un approccio analiticamente neutrale per aiutare il paziente, o infine lo stravolgimento del setting che facilita la confusione e alimenta la fantasia onnipotente del paziente di poter controllare e far uscire dal setting il proprio analista. Molti punti sostenuti dagli autori intersoggettivi sono condivisibili, ma non convincono certe prese di posizione radicali, rigide e poco critiche se riferite a situazioni relazionali che dovrebbero essere invece affrontate con più equilibrio e maggiore elasticità, specie quelle relative all'uso del controtransfert da parte dell'analista e alla stessa responsabilità per l'andamento del processo che sembra, in alcuni momenti, pesare troppo dalla parte dell'analista. Il pericolo è quello di credere veramente che interpretare sia conversare o addirittura suggestionare il paziente, e che il transfert del paziente dipenda più dal controtransfert dell'analista che non quest'ultimo dal transfert del paziente.

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