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recensione di Papuzzi, A., L'Indice 1994, n. 3
Davvero il Monte Bianco è stato inventato come la radio o lo sbucciapatate? Partiamo da un titolo, che non è messo lì per "épater le bourgeois" o per catturare l'attenzione dell'acquirente di strenne, ma rispecchia nella sua ambiguità le intenzioni e le contraddizioni del libro. Come s'impara sui banchi di scuola, la parola invenzione ha due significati principali, derivanti dalla medesima base etimologica ma diventati in un certo senso l'uno opposto all'altro. La prima accezione è quella di ritrovamento, oggi desueta nel linguaggio comune, ma ancora pregnante nel linguaggio allusivo; la seconda è quella di creazione, tanto tecnica che poetica.
Philippe Joutard, storico modernista, studioso in particolare della memoria collettiva, soprattutto protestante, si è posto l'ambizioso obiettivo di saldare i due significati della parola invenzione attorno a ciò che il Monte Bianco ha potuto rappresentare, ma anche non rappresentare, dall'età dell'umanesimo alla sua conquista, sia nella cultura scientifica sia nell'immaginario poetico. Come si sa, la prima ascensione del Tetto d'Europa venne compiuta l'8 agosto del 1786: quel giorno, scrive Joutard, "il Monte Bianco è stato scoperto", è entrato nella storia, cioè è stato inventato come meta turistica e terreno alpinistico. Ma da quella giornata Joutard torna indietro a caccia dell'archetipo di montagna che preesisteva all'impresa di Paccard e Balmat. Cosi il suo saggio vuole essere contemporaneamente un illuminante flash su una data storica - nel secondo centenario della conquista della vetta (quando è uscita l'edizione originale) - e il recupero e ripristino, come scrive il curatore e traduttore Pietro Crivellaro, accademico del Cai e storico dell'alpinismo, "dell'idea di montagna dal medioevo all'illuminismo".
Ma quanto è solido questo connubio? Quanto funziona questa ambivalenza? Siamo sicuri che il Monte Bianco sia un'invenzione seppur metaforica? O non sarà piuttosto la tremula proiezione di una lanterna magica? Non un'invenzione ma un'illusione?
Innanzitutto bisogna chiarire che il libro è un ricco collage di documenti: su duecento pagine, quelle scritte dall'autore saranno al massimo una cinquantina. Tutto il resto è un'antologia di citazioni, un percorso intelligente e affascinante fra le opere non molto conosciute di una bibliografia che comprende Petrarca e Simler, La Rochefoncauld e Rousseau, Leonardo da Vinci e Horace de Saussure, il medico Guglielmo Grataroli, il disegnatore Marc-Théodore Bourrit, lo scienziato Conrad Genser, l'alpinista William Coolidge. Le citazioni sono così preponderanti che l'editore le riporta a giustezza piena, stampando invece in giustezza ridotta, col margine rientrato, il testo dell'autore. Non si tratta soltanto di risparmiare carta, ma di tradurre tipograficamente il ruolo di Joutard, che è quello di un notaio che fa parlare le carte, o se vogliamo di un burattinaio che mette in scena il suo teatrino. Ma quest'operazione restringe la ricerca sulla rappresentazione della montagna e sull'idea di montagna solo a una serie di fonti scritte, con una parentesi sulla nascita del paesaggio alpestre nella pittura quattrocentesca.
Non si può non vedere come questa sia una scelta decisamente parziale, che lascia fuori campo tutto ciò che preesisteva, sia nelle culture mitologiche sia nell'immaginario popolare, alle elaborazioni intellettuali di scrittori e scienziati. Ed è quanto meno singolare che Joutard non citi mai un'opera forse più ambiziosa che esemplare, ma ricchissima di spunti, di un suo compatriota, oggi troppo frettolosamente dimenticato: quel Samivel, disegnatore e cineasta, un tempo famoso per le sue vignette, autore del ponderoso saggio "Hommes, cimes et dieux", catalogo dell'immagine della montagna presso le culture di ogni epoca e ogni forma d'arte. Sarà lo snobismo dell'accademico verso un eclettico dilettante? In secondo luogo, bisogna dire che Joutard dà l'impressione, nel giustapporre un testo a un altro, di procedere a zig-zag. Per usare una metafora prettamente alpinistica, la sua non è una linea a goccia d'acqua, ma è un vagabondaggio in parete, con una tendenza a individuare e quindi aggirare i problemi che si frappongono alla sua progressione. Ciò rende la lettura assai piacevole e sorprendente, direi con continui cambi di scena, ma la linea di ragionamento su cui Joutard compie la sua esplorazione accusa dei punti deboli. In particolare resta oscura la tesi su cui è inchiavardata l'idea di un'invenzione del Monte Bianco. Nella sua ascensione si rispecchierebbe infatti un moderna spirito di conquista figlio della cultura illuminista, e non un fenomeno romantico, non la passione per la natura. Ma fino alla metà del Settecento, come racconta Joutard, la "moda alpestre" si diffonde sulla base di un'immagine romantica, che egli ritrova per esempio nel poema "Die Alpen* di Albrecht Haller e nella "Nuova Eloisa" di Jean-Jacques Rousseau: la montagna buona perché selvaggia e i montanari virtuosi perché poveri si contrappongono alla corruzione delle pompe, del lusso e del "van profitto". Come si passa da una cultura all'altra? Come la montagna diventa illuministica da romantica che era? L'autore fa entrare in campo, su questo punto, sia i viaggiatori inglesi che occupano un posto di primo piano a partire dal 1741 sia il numero di protestanti che svolgono un ruolo determinante nella promozione dell'alta montagna. Ma per quanto riguarda gli inglesi ignora la questione sportiva, che invece è fondamentale, e per quanto riguarda i protestanti si limita a constatarne la presenza, perché il tema da solo "meriterebbe lunghe trattazioni".
Avanzate queste piccole riserve, meno male che il Nostro non si è avventurato in "lunghe trattazioni", meno male che va liberamente un po' a zonzo sulla sua parete. Il libro ne guadagna in spigliatezza e divertimento, come nelle pagine sui primi ramponi e sui primi alpenstock, che risalgono, udite udite!, alle raccomandazioni di un viaggiatore cinquecentesco. Perché poi questa non è la storia di una montagna, semmai la storia di come noi abbiamo percepito quella montagna. Da questo punto di vista è vero che il Monte Bianco è stato inventato - per il turismo, per l'alpinismo, per la scienza, per la letteratura - quando è stato finalmente salito, ma è anche vero che quella salita, rendendo possibili tutte le successive, ha innescato il processo di una ricorrente illusione: che abbia un senso arrivare in cima alla bianca calotta, che abbia un significato la conquista dell'inutile.
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