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Le prime pagine del libro
La sala studio della Public Library di New York è immersa nel silenzio, il termos con il caffè e la trilogia sono sul tavolo e il Mac collegato: non resta che cominciare. Tra un paio di giorni devo consegnare il mio primo articolo per «Time Out», che non sarà il «New Yorker» ma resta una delle riviste più popolari della città, e la sola idea di firmare per la pagina culturale mi elettrizza, rappresenta l’occasione che sognavo da una vita e, a furia di consumarmi i polpastrelli su blog e riviste per casalinghe disperate, sembrava non arrivare mai.
Ovviamente, quando me l’hanno proposto, ho accettato senza esitazione, lusingata che avessero pensato proprio a me, e solo quando l’effetto della lusinga è svanito ho realizzato in che razza di guaio mi fossi cacciata. Come avrei potuto scrivere un articolo di tremila battute sulle Sfumature di EL James e sul film in uscita se non avevo letto una riga né visto mezza scena del precedente e, a essere sincera, non sapevo neppure in quale ordine farlo?
Perché, sì, anche se la redazione di «Time Out» non poteva immaginarlo, ero una delle poche, forse l’unica, a non saperne niente, a essere scampata allo tsunami ormonale che aveva investito l’universo femminile all’uscita del primo libro, nel 2011. E miracolosamente avevo evitato anche il secondo e il terzo. Un’impresa eroica, visto che ovunque mi trovassi non si parlava d’altro. In seguito a ogni pubblicazione l’atmosfera si incendiava, l’eccitazione si spandeva nell’aria e ti si appiccicava sulla pelle, come se un brivido percorresse la schiena di milioni di donne sparse per il pianeta. New York, Londra, Milano. Per strada, nei bar, in rete. Non esistevano differenze di classe, età e cultura, l’onda colpiva indifferentemente teenager, donne in carriera e tranquille madri di famiglia; persone che fino al giorno prima non si sarebbero neppure sognate di comprare il libro, lo leggevano in modo ostentato, senza alcun imbarazzo. Certo, c’era chi lo detestava, chi criticava e faceva la morale – in genere, era chi non l’aveva letto –, fatto sta che ne parlavano tutte. Tutte tranne me, al punto che, a volte, avevo la sensazione che mi guardassero come fossi io la pervertita… La verità è che non mi interessavano, ero semplicemente convinta che ci fossero un’infinità di storie molto più interessanti. Poi, tutto sommato, non sentivo il bisogno di eccitare la mia vita sessuale, perché, va bene, non ero una pantera e a venticinque anni non avevo ancora incontrato e, probabilmente, neppure sfiorato il principe azzurro, al punto che dubitavo seriamente esistesse e, se anche fosse successo, sono convinta che mi avrebbe annoiata in pochi minuti, ma un uomo ogni tanto, una storia a base di lenzuola stropicciate e “amaipiùrivederci” mi bastava. Di sicuro non avevo la minima curiosità per lacci, frustini e manette, e la sola idea di indossare corsetti e farmi sculacciare mi sembrava ridicola per non dire folle.
È andata avanti così per cinque anni, dall’uscita del primo libro al momento in cui ho accettato la proposta di «Time Out». Vogliono che parli del film e di Dakota, che probabilmente sarà sulla copertina: «Per il resto» hanno detto «scrivi quello che vuoi». Bene, perfetto: peccato non sapessi nulla né del film né di Dakota, figurarsi il resto. Tuttavia, visto che non avrei mai rinunciato a un’opportunità del genere, ho seguito l’unica strada possibile, cominciando dal primo passo: ho comprato i tre volumi, mi sono chiusa in casa e li ho letti a tempi record. Grigio, Nero, Rosso: un’immersione totale, una sorta di apnea senza distrazioni. Appena percepivo che la storia mi stava prendendo e che alimentava una curiosità e un prudore che non avevo mai provato, mi sforzavo di restare doppiamente concentrata e appuntavo, sottolineavo e commentavo a bordo pagina manco stessi preparandomi per il diploma.
Poi ho visto il film, e il ponte tra me e la storia, tra me e Anastasia è franato. Fino a quel momento ero così concentrata sulla struttura dei libri, sulle note e le osservazioni brillanti che avrei mosso, che non avevo quasi pensato alla protagonista, a figurarmela. Era un personaggio che mi piaceva, per la quale sentivo una sorta di empatia, ma restava una materia di lavoro, il pretesto per sfoggiare il mio talento da aspirante giornalista. Solo che Dakota era perfetta, talmente credibile da cambiare per sempre il modo in cui l’avrei pensata. Non era posticcia o una copia sbiadita dell’originale: Dakota era Anastasia.
Ma lo era sul serio o era soltanto una brava attrice? Voglio dire, c’era qualcosa di lei nel personaggio di EL James o era pura finzione? E se anche fosse, era riuscita a impossessarsene in modo così straordinario che, per farlo, aveva per forza dovuto trovare dei punti di contatto: già, ma quali? Cosa hanno in comune Anastasia Steele, la ragazza della porta accanto, e Dakota Johnson, la rampolla dell’aristocrazia hollywoodiana? E cosa hanno in comune ai milioni di donne che palpitano per loro? Quale sfumatura le accomuna?