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Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2017
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Vincitore del Premio Biella Letteratura e Industria 2019.
Vincitore Premio Napoli 2018, sezione Narrativa. Finalista alla XLIX edizione del Premio Vitaliano Brancati, sezione Narrativa. Inserendosi in una grande tradizione letteraria che va da Volponi a Ottieri a Bianciardi, Giorgio Falco scrive un magnifico romanzo sul lavoro, che da narrazione epica diventa cronaca del fallimento. «Mi sentivo convalescente, ma non ero deluso dal lavoro. Soffrivo, dall'età di diciassette anni, di una nevrosi politica ed economica, piú che individuale.» Da bambino Giorgio Falco amava la divisa da autista degli autobus, che il padre indossava ogni giorno per andare al lavoro, tanto che a Carnevale voleva vestirsi come lui, anziché da Zorro, chissà se per emularlo o demolirlo. Questo romanzo autobiografico non può che cominciare cosí, con la storia del padre: solo raccontando l'epopea novecentesca del lavoro come elevazione sociale, come salvezza, Falco ne può testimoniare il graduale disfacimento, attraverso le proprie innumerevoli esperienze professionali, cominciate durante il liceo per pagarsi una vacanza mai fatta. Operaio stagionale in una fabbrica di spillette che raffigurano cantanti pop, il papa e Gesú, per 5 lire al pezzo. Venditore della scopa di saggina nera jugoslava, mentre in Jugoslavia imperversava la guerra. Aspirante imprenditore di un'agenzia che organizza «eventi deprimenti per le élite». Redattore di finte lettere di risposta ai reclami dei clienti. Una lunga catena di lavori iniziati e persi, che lo conduce alla scelta radicale di mantenersi con le scommesse sportive. È la fine, o solo l'inizio. Perché questa è anche la storia – intima, chirurgica, persino comica – di un lento apprendistato per diventare scrittore. E di come possa vivere un uomo incapace di adattarsi.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Come sostiene Daniele Giglioli, Giorgio Falco è più grande dei nostri scrittori, la nota riservatezza e dedizione lo rendono anche l'artista che dovremmo proteggere "C’è un terzo mito a cui il secolo scorso ha sacrificato. Non tutto il secolo in verità, solo la sua cattiva coscienza, gli artisti, dediti per vocazione a cercare la vera vita nella falsa. Era il mito secondo cui la vera vita è appunto l’arte, la letteratura, redenzione di quella che ci sfugge nello scialo dei giorni. Pagando il prezzo, i più onesti e i migliori, dell’infiggere a sé stessi e al lettore una tale mescolanza di piacere e di angoscia da costringere spesso quest’ultimo a ribellarsi e a cercare piaceri più facili. Quel mito tenta forse anche Falco, che però non gli cede. Il lettore non troverà da nessuna parte la volgarità terra terra del “ce l’ho fatta”, né quella tanto più volgare del “che importa, in fondo, se tutto ciò ha fatto nascere una scrittura?” Ci sono scrittori per i quali, di qualsiasi cosa parlino, fa premio comunque su tutto il ribaldo, avventuroso, amorale piacere di esprimersi. Falco è troppo onesto per questo. Tra cosa e stile la fusione è senza resti. La bellezza, la verità di questo libro, il lettore deve guadagnarsela a sue spese. Dentro, ma anche fuori dal libro."
Non ho amato particolarmente questo libro pur trovandolo un'interessante riflessione sul precariato. Ciò che non ho gradito è stato un estremo "cinismo" dell'autore nello sminuire le cose semplici della vita (mi resta impressa la festa della pensione del padre), e la "cattiveria" di alcuni suoi giudizi.
Falco è giunto a questa sua prova più matura dopo alcuni libri di racconti e romanzi capaci di rappresentare una precarietà che muovendo dalla realtà del lavoro si allarga all’esistenza. La “sconfitta” del titolo è quella che porta nel giro di due generazioni dall’inserimento sociale del padre, dopo la guerra, grazie a una fede incrollabile, austera, protestante nel lavoro e nella dignità ch’esso conferisce alla vita umana, alla dispersione insensata, atroce fino alla comicità , che invece contrassegna l’esistenza del figlio, in una iniziazione alla società “avanzata”, passando da un lavoro all’altro, secondo un percorso che non sarà neppure una china perché avrebbe comunque un senso, una direzione. I rapporti sociali si esauriscono in rapporti di mercato, la fungibilità delle merci nella loro fantasmagoria rivela l’intercambiabilità degli uomini ridotti a consumatori, e perciò allontanati da ogni forma di solidarietà, da ogni possibilità di immaginare un destino collettivo: non, cioè, il destino di un individuo isolato simile a quello degli altri individui isolati, ma la prospettiva esistenziale di chi partecipa alla costruzione di un senso comune ad altri. Da forma di riconoscimento, di emancipazione, di incontro con l’attività altrui e di superamento della condizione naturale, il lavoro è diventato strumento di parcellizzazione e di sconfitta di ogni resistenza in nome dell’umano, per rivelarsi una forma di intrattenimento, di distrazione ludico-recitativa. I rigurgiti di rabbia, quando vengono, si indirizzano verso umani di pari livello, i colleghi, e non vengono indirizzati contro il potere più vicino. “Ipotesi”, nel titolo, indica che non c’è tragedia; i sentimenti son attutiti (finché non esplodono), e la desolazione del mondo si rivela in una continua caduta nel comico dell’insensatezza quotidiana.
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