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Nulla di più facile, di fronte a un fenomeno sconosciuto, che tracciare un confine, una barriera, un impedimento alla comunicazione. Tanto basta, nel discorso pubblico (e talvolta anche istituzionale), ad affrontare nel peggiore dei modi il problema dell'immigrazione e delle differenze culturali, religiose ecc. che essa ha portato nella nostra società. Questo confine, poi, si riflette nella criminalizzazione degli immigrati e nell'immagine degli stranieri in carcere, identificati secondo pregiudizi di uso comune, verso i quali sono messe in atto reazioni uniformi, di discriminazione, di indifferenza o solidaristiche, a seconda dei casi e della cultura dei loro interlocutori.
È così che, in fondo, degli stranieri in carcere sappiamo poco, abituati, tutt'al più, a quantificarli (più di un terzo dei detenuti, da qualche anno in qua). Seguono (quando seguono) l'anagrafe e lo stato giuridico. Poi basta. Servirebbe, invece, saperne di più. Non solo per scienza e coscienza, per obiettività o buon cuore, ma per capirne di più e orientare diversamente azioni, culture e pratiche. La ricerca di Mohammed Khalid Rhazzali concorre efficacemente a questo scopo, aprendoci squarci di realtà normalmente coperti sotto la coltre dell'estraneità.
Preceduta da una fase di osservazione partecipante, nella quale Rhazzali ha fatto parte di una comunità penitenziaria in veste di mediatore culturale, acquisendo dimestichezza e riferimenti in quel complicato gioco di ruolo che si svolge quotidianamente dietro le mura di qualsiasi prigione, la ricerca si è poi realizzata nell'intervista di un campione selezionato in tre diverse carceri di tre diverse città. Ne è emerso un quadro interessante del modo in cui è vissuto il rapporto con la religione da parte di un mondo (i detenuti in Italia di fede musulmana) tutt'altro che trascurabile, anche quantitativamente: all'epoca della ricerca erano più di novemila quelli che avevano dichiarato di esserlo all'atto dell'ingresso in carcere.
La ricerca indaga la dimensione interiore della religiosità degli intervistati, attraverso la loro autodefinizione in rapporto alla fede, così come il loro vissuto nel rapporto con l'istituzione (i suoi tempi, i suoi spazi, le sue regole) e la relazione con gli altri detenuti (anche con gli altri detenuti musulmani) e con il personale. Nelle carceri italiane, dove la fede e la pratica religiosa islamica sono ancora riservate (quasi esclusivamente) agli stranieri e ai detenuti (Rhazzali non manca di rilevare la differenza con altri paesi europei di più antica tradizione immigratoria, dove la religione islamica non è confinata tra gli "stranieri" e neanche tra i detenuti, essendoci personale che la professa), il problema del "diritto di culto" non è ancora risolto compiutamente e si ripropone tanto nelle prescrizioni (alimentari, igieniche, relative alla preghiera ecc.) quanto nell'assistenza spirituale.
Alla fine, quel difetto di comunicazione e di conoscenza originario si rispecchia in rappresentazioni di sé completamente diverse dai processi di identificazione ("fondamentalisti", "moderati" ecc.) che siamo soliti produrre da quest'altra parte del confine. Non conoscendoci, non riusciamo a riconoscerci, ma, scrive Rhazzali in conclusione, "esiste evidentemente anche il carcere in parte lo suggerisce una via diversa: quella in cui la partecipazione alla vicenda della realtà italiana avvenga senza riserve da parte dei musulmani e senza compressione dei diritti e della dignità da parte della società italiana".
Stefano Anastasia
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