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Il verso di Carducci che fa da titolo al saggio, e si riferisce quindi all'Italia del cinquantennio postunitario, potrebbe avere come complementare e opposto un verso di Zanzotto sull'Italia del dopo centenario: "Io là vi collocai, fragili italie / i cui minuti segmenti / avido sale stinse". Ma nonostante il sale della modernizzazione selvaggia, dell'asfalto e dei supermercati, il tema del pluralismo della nostra nazione fa ancora discutere. È questa una delle ragioni per cui il libro di Sandra Puccini è interessante anche per chi non si occupa di antropologia culturale, di studi demoetnoantropologici e della loro storia. Infatti, intorno alla grande mostra di etnografia italiana realizzata a Roma nel 1911 con la direzione di Loria, e alla sua faticosa ampiezza urbanistica, viene ricostruito un mondo di relazioni, immagini dell'Italia, progetti, climi intellettuali, paesaggi urbani, che spazia largamente fra arte, letteratura e politica. In quello che fu considerato anche un anno infausto (il colera, la guerra di Libia) si annodarono tante ragioni culturali e pratiche della riflessione dell'Italia su se stessa, che esso appare significativo, quasi un demarcatore d'epoca. Il libro ci restituisce la mostra attraverso immagini di intellettuali di spicco, di ricercatori maschilisti e cacciatori, di viaggiatori e collezionisti, che cercarono di costruire, in una complessa rete che fece capo a Loria (il quale ne rispondeva a Ferdinando Martini), un'identità italiana che valorizzasse, come nell'epigrafe carducciana, le differenze dell'Italia, colte nella loro ambiguità: fra arretratezza, prestigioso arcaismo e risorsa identitaria e artistico-artigiana.
Tratti dunque profondi e attuali della vicenda culturale italiana, comuni a tutta la storiografia dell'Italia e in specie a quella letteraria (Cena, D'Annunzio, Aleramo, Papini, Cecchi, Pascarella, Cardarelli), artistica (Cambellotti, Balla) e politica, i cui protagonisti si incontrano alla vigilia del primo conflitto mondiale coniugando le differenze e le vicinanze tra socialismo e primitivismo estetizzante, tra atavismo positivista e pluralismo sociale, tra regionalismo e nazionalismo. L'autrice fa vivere tutti questi elementi nella costruzione e della fruizione, anch'essa plurale, dell'evento, parte dell'Esposizione internazionale del 1911, ricavandoli da fonti giornalistiche, epistolari, documentarie, dall'interno e dall'esterno degli accadimenti.
Se il libro è di interesse generale soprattutto sui temi dell'identità nazionale, è di particolare rilievo per gli studi demoetnoantropologici italiani. Per questi studi, infatti, la mostra rappresenta una grande fondazione (purtroppo poi sfortunata e dispersa) che è utilissimo ripensare. In effetti quello che Puccini descrive è il momento forse più significativo che ci sia stato in Italia di connessione tra la politica e gli studi che allora erano chiamati etnografici; e il processo di costruzione della mostra - dal 1907 al 1911 - è un'entusiastica fase di creazione dei metodi, degli oggetti e delle forme di rappresentazione della museografia dea, ma anche dei "monumenta" dei nostri studi (confluiscono nella mostra tutti i tipi di collezioni, comprese le stampe popolari e i documenti e i testi bibliografici). Puccini racconta da quale cultura positivista e di viaggi extraeuropei venissero i protagonisti, e come la rete nazionale creata da Loria si interconnettesse soprattutto per via epistolare, orientandosi a definire i propri paradigmi di collezione e di museo, e come l'insieme si collegasse con il potere politico attraverso la mediazione di Ferdinando Martini (che era stato governatore dell'Eritrea e che Loria aveva conosciuto durante il Primo congresso coloniale ad Asmara) che poi, in quanto vicepresidente del comitato dei festeggiamenti dell'Esposizione, commissionò a Loria la grande raccolta e l'esposizione degli oggetti di tutte le regioni italiane. Ma l'autrice racconta anche come la cultura del tempo vedesse il nesso tra unità e regionalismo, tra primitivo e moderno. E quindi racconta un momento di straordinaria e mai più ripetuta popolarità degli studi etnografici come fattore emblematico dello stato dell'Italia.
Il rilievo della mostra (e degli altri eventi che vi si accompagnarono) è stato "tramandato" ai nostri studi soprattutto attraverso gli scritti museografici di Alberto Mario Cirese (in Oggetti segni musei , Einaudi, 1977), che riprendono le discussioni che si ebbero allora tra diversi criteri di rappresentazione nel museo. Il lavoro di Loria e dei suoi collaboratori, se in effetti condivide alcune premesse con quello di Mantegazza (fondatore del museo di antropologia di Firenze) e con il pensiero "positivo" di Villari, non ha però rapporti visibili (se si eccettua l'attenzione e il rispetto per D'Ancona) con quello della tradizione romantica della poesia e delle novelle popolari (l'autrice documenta i cattivi rapporti con Pitrè, fondatore delle tradizioni popolari siciliane e italiane). Rinnova poi il percorso dei viaggiatori-scienziati, che con oggetti e documenti riportati dai viaggi esotici avevano riempito i musei etnoantropologici, piegandolo verso le diversità di casa nostra. Inoltre dà vita per la prima volta a una campagna sistematica di raccolta di documenti materiali, oggettuali, documentali (e, nel progetto, cinematografici) che mai si era vista prima e mai si ripeterà poi con tanta sistematicità e con la formazione, a partire dalla passione e dal dilettantismo di molti raccoglitori locali, di una generazione di professionisti dell'etnografia e della cultura materiale. Si tratta quindi di una vera fondazione disciplinare, realizzata fuori dell'università, e quindi nello spazio del servizio pubblico: di una anticipazione di una possibile museografia di stato e regionale, parte della cultura ufficiale.
È noto che questa monumentale fondazione di un sapere, di una collezione, di una mostra articolata e sorprendente anche per le forme teatrali della sua messa in scena, franerà per la morte di Loria, la guerra, e molte altre ragioni, fino alla ricomposizione e definitiva edificazione (negli anni cinquanta) di quello che allora si era chiamato Museo di etnografia italiana come Museo nazionale di arti e tradizioni popolari all'Eur, con un nome che ne tradiva le origini. Il museo Loria, come dovrebbe chiamarsi quello dell'Eur, è ancora un potenziale luogo di riferimento per gli studi nazionali (fin dallo straordinario archivio storico che è la principale risorsa documentaria dell'autrice), che potrebbe tornare, come Loria lo aveva pensato, alla comunità degli studiosi.
L'autrice descrive invero come la complessa storia di una creazione, la storia di quello che noi posteri conosciamo come un crollo, e questo aiuta sia a vedere le continuità che a quell'impresa ancora ci legano, sia le potenzialità di un possibile diverso esito di quella vicenda. La storia fatta con i se aiuta l'immaginazione. Ma quel che è chiaro è che questo studio mostra l'etnografia italiana come disciplina appassionata, aggressiva, impegnata a usare risorse pubbliche e a formare "quadri", a produrre ricerca sul campo tra "primitivi" dai nomi familiari: sardi, molisani, campani, sanniti ecc., il cui consorzio tuttavia dava una immagine plurale della nazione.
Su quest'ultimo aspetto, che probabilmente ha lasciato la traccia più forte nella cultura diffusa e ha fatto di quell'occasione un evento culturale nazionale prima e più che un evento "etnografico e demologico", Puccini apre anche una discussione storiografica tesa a riflettere sui modi della percezione attuale del passato, e, mentre difende i protagonisti del suo studio da accuse troppo anacronistiche di "invenzione di stereotipi identitari", coglie il formarsi di un paradigma incisivo anche negli studi successivi, tra amore della differenza, arcaismo, e immaginazione di multiculturalità. La scena del 1911 spinge anche l'etnografia a fare i conti con la "rappresentazione" in termini di teatralità, di messe in scena della miseria e del folclore, e sono molto belle le pagine dedicate alle cronache dei visitatori della mostra, i viaggi stupiti, disorientati o affascinati tra case sarde, capanne pontine, pizzerie e bassi napoletani.
Dovendo gestire complesse connessioni tra individui, istituzioni, rappresentazioni nel quadro della politica e della cultura nazionale Puccini sceglie una scrittura narrativa, molto vicina agli occhi e ai pensieri di tanti diversi protagonisti: da Loria ai giornalisti che visitarono l'esposizione, al gruppo degli intellettuali attivi nell'Agro, alla questione delle donne, alle lettere dal terreno. C'è un uso delle fonti epistolari che porta proprio dentro un laboratorio intellettuale fatto anche di affetti e amicizie maschili, di crescita di modelli di indagine e di produzione di forme culturali. L'autrice sceglie di fare emergere una sorta di concerto di voci e di sguardi, senza perdere il filo (con 231 voci nell'indice dei nomi e 300 titoli di bibliografia): un filo rappresentato dal passato e dal futuro della mostra, che ne compone la vicenda attraverso scambi, dialoghi, conflitti, vita quotidiana degli intellettuali (con le lettere scritte sulla carta del caffè Gambrinus) che scandiscono anche le epoche e le trasformazioni dei saperi. Studiosa che ha fatto della storia dell'antropologia italiana il suo "campo" fondamentale, l'autrice costruisce in quest'opera uno stile di racconto e di scoperta, un modo di problematizzare che non ha avuto finora l'eguale.
La sua scelta è immedesimativa (in una intensa pagina finale afferma di identificarsi con Loria che è la sua guida nel viaggio nel tempo): ma l'effetto è quello di rileggere gli studi dislocandoli nel tempo e poi di rivedere se stessi e gli studi d'oggi in un'operazione di "ritorno al futuro" che rende il nostro mestiere più trasparente a se stesso e il suo presente più ricco risorse e di possibilità che ci vengono da una migliore conoscenza e immaginazione del passato.
Pietro Clemente
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