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A una signora che lo criticava per le posizioni pacifiste, Lytton Strachey ribatté: "Sono io la civiltà per cui stanno combattendo". Così ricorda Newbury in un veloce ma intenso saggio su John Maynard Keynes e sui tanti mondi che abitava: la Cambridge in cerca di una religione laica, l'economia, dopo la morte di Dio e della regina Vittoria; Bloomsbury e le sue eresie. Veloce ma intensa è stata la vita di Keynes, economista e, dunque, secondo quanto scrisse nell'obituary del maestro Marshall, dotato di quella combinazione di talenti che lo rendeva matematico, storico, statista, filosofo. Incorruttibile e distaccato come un artista, ma al contempo realista come un politico. Senza timori reverenziali nei confronti delle grandi biografie di Keynes, come quella di Robert Skidelsky (due dei tre volumi pubblicati da Macmillan nel 1983 e nel 1992 sono stati tradotti in italiano da Bollati Boringhieri: 1883-1920. Speranze tradite nel 1989 e 1920-1937. L'economista come salvatore nel 1996), Newbury ha il merito di trasmettere al lettore il senso di eccezionalità che contraddistingue la persona, e in ciò la storia lo ha aiutato, e la personalità di un uomo d'altri tempi. Un evento, l'uomo Keynes, destinato a restare isolato, nella modernità cui egli stesso ha condotto tentando di combatterne, paradossalmente, l'utilitarismo di fondo, di base e di sostanza. È quell'alchimia di altri talenti propri dell'economista il filo conduttore del lavoro; quasi a segnalare che nella tarda o postmodernità, che delle alchimie dichiara l'obsolescenza, la speranza che ancora dobbiamo tradire è quella di riscoprire Keynes. Ovvero, l'economia come strumento, per la liberazione della società dal problema economico. Per dare ai nostri nipoti la possibilità di essere anche, molto più di noi, i grandchildren dello stesso Keynes. Mario Cedrini
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