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Jacques Copeau - M. Ines Aliverti - copertina
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Jacques Copeau - M. Ines Aliverti - copertina
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Descrizione


Attraverso una dettagliata biografia critica che divide l'impegno di Copeau nei suoi principali campi pratica del testo teatrale, attore e spazio della messinscena Maria Ines Aliverti affronta nel suo lavoro il nodo del teatro del primo Novecento: come riteatralizzare il dramma senza cedere alle lusinghe del grande spettacolo.
Noto anche in Italia per le messinscene del Mistero di Santa Uliva e Savonarola al Maggio musicale fiorentino e per la sua reinterpretazione della commedia dell'arte, Jacques Copeau ha avuto come allievi italiani Orazio Costa e generazioni di giovani attori e registi che si sono ispirati al suo grande progetto di riforma teatrale.
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Dettagli

1997
2 maggio 1997
186 p., ill.
9788842052371

Voce della critica


recensione di Ruffini, F., L'Indice 1997, n.10

Copeau è uno dei grandi maestri del Novecento alle origini della regia. Con l'apertura del Vieux Colombier, nel 1913, fonda la tradizione dei piccoli teatri e pone con intransigenza il problema del valore del teatro, oltre le sue quotazioni di mercato. Dal 1920 al 1924 l'impegno di Copeau si concentra prevalentemente sulla scuola, come luogo in cui educare - che è altra cosa di addestrare - gli attori nuovi per il nuovo teatro. Nel 1924 l'abbandono del Vieux Colombier per la mitica "fuga in Borgogna" con alcuni attori - i Copiaus, come furono detti - alla ricerca di un'originarietà del teatro prima della sua Cultura. Contestazione del mercato, pedagogia, ritorno alle fonti: si compendiano in Copeau molti dei moventi che animarono la rivoluzione teatrale del nostro secolo. Profonde le sue influenze: su Dullin, Jouvet, Decroux e, sia pur indirettamente, Artaud. In Italia si pensi esemplarmente a Orazio Costa.
La Aliverti è uno degli studiosi più competenti di Copeau, il più serio in Italia dopo la inaugurale monografia di Fabrizio Cruciani ("Jacques Copeau, o le aporie del teatro moderno", Bulzoni, 1971). A lei si devono, tra l'altro, l'antologia "Il luogo del teatro" (La casa Usher, 1988), e il saggio "La rappresentazione di Santa Uliva di Copeau" "(1933)" (in "Teatro Italiano 1", a cura di P.Corriglio e G.Strehler, Laterza, 1993). Pur nei limiti costrittivi di una collana, l'ultimo libro è all'altezza di questi precedenti. L'opera di Copeau vi è esaminata con ricchezza e precisione di riferimenti nei tre periodi della sua vita artistica e nelle tre articolazioni - drammaturgia, recitazione, messa in scena - del lavoro teatrale. I materiali critici in appendice sono in parte inediti, e importanti soprattutto per la conoscenza del periodo dei Copiaus. Un contributo, quello della Aliverti, di grande qualità: e però, proprio nel suo essere ineccepibile, sintomatico della difficoltà intrinseca allo studio della regia nel Novecento.
Ho detto intrinseca, ma meglio avrei dovuto dire radicale, perché è proprio alla radice che la difficoltà si colloca. Alla radice infatti c'è la domanda: cos'è la regia? La risposta non può che essere questa. La regia è una categoria storiografica che riunisce due fenomeni per principio non omogenei tra loro: la "professione" della regia, eredità della tradizione del direttore di scena, e la "rivolta" personale praticata, sotto il segno della regia, contro lo svilimento del teatro. Nella realtà concreta, il "regista della rivolta" - com'è in sostanza Copeau - è anche un maestro della professione, o meglio: lo diventa inventandola. Le acque si mischiano nella realtà; il che è un buon motivo per tenerle distinte nello studio. Come tener fede alle convenienze dell'analisi senza che appaiano connotati della realtà?
C'è poi un altro aspetto. Copeau ha lasciato un segno forte dalla parte della rivolta; ma quando se ne scrive essa rischia di involare in quelle sue formule come "costruire la sincerità", "possedersi per donarsi", "tradizione della nascita", formule sotto le quali c'è tanto di mestiere e tecnica, ma il cui lessico aereo finisce spesso col legittimare una lettura un po' sentimentale in chiave esclusivamente etica. Ma la prospettiva dell'etica non è autosufficiente, come non lo è quella della tecnica del resto. C'è qui uno di quei nodi del teatro - il rapporto tra tecnica ed etica - per i quali "non basta capire". Il problema di cui Copeau è esempio affaccia, oltre che sulla storia, anche sul metodo, cioè sulle armi per fare storiografia. Tra di esse chiede di includere il rigore del documento, certo, ma anche un'altra forza che i documenti non bastano a dare senza un ambiente attivo che consenta di farne in qualche modo esperienza. "Esperienza del documento" oltre la sua conoscenza: non è un modo fiorito per dire che lo studioso deve anche "fare pratica" del teatro. Non è di una tale banalità che si tratta. Si tratta invece di come attivare "un'altra via dell'intelligenza" oltre quella che si consuma tutta nell'erudizione e nell'intelletto. Può essere questa la risposta alla difficoltà radicale del raccontare la regia del Novecento. In particolare per Copeau, ribelle e professionista, intellettuale e operatore ben oltre la retorica inconsistente e qualunquista dello "sporcarsi le mani".

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