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È emblematico che il sottotitolo di quest'opera monumentale si ricolleghi per un soffio alla tradizione memorialistica francese (Saint-Simon, Rousseau, Marmontel, Chateaubriand) e che al tempo stesso il titolo apra all'imminente forma diaristica dei vari Renard, Gide o Léautaud. I Goncourt sono uno spartiacque: la ricapitolazione mnemonica lascia il passo all'istantanea, le coniugazioni al passato al presente storico, e la letteratura si assimila sempre più al giornalismo, se non alla stenografia.
L'immenso deposito di cronache, aneddoti e malignità inizia a formarsi nel 1851. Sera per sera, il giovane Jules trascrive febbrilmente, con la supervisione di Edmond (più grande di otto anni), fatti e impressioni della giornata con un'identità assoluta, gemellare, di gusti e di opinioni che si suggella nel pronome incrollabile: "nous". Morto nel 1870 Jules di sifilide, Edmond (che non lesina i dettagli della lunga agonia) prosegue il Journal sino al 1896, continuando per anni a vedere le cose con lo sguardo sovrapposto del fratello.
A renderli inseparabili e a fare di due paia di occhi un'unica visione binoculare, era stata una sorta di adorazione perpetua, ai limiti della nevrosi, nei confronti delle arti e della letteratura in particolare; da qui l'inesausta attività di poligrafi: diario a parte, i Goncourt scrivono e pubblicano di storia (predilezione per il Settecento), di critica, di pittura e sono rinomati collezionisti. Ma al fondo di tutte le ambizioni, il romanzo: una serie di tentativi che troverà il punto focale, non abbagliante, in Germinie Lacerteux (1864).
Il tempo ha livellato la maggior parte di queste ambizioni. Come storici i Goncourt, grandi nostalgici dell'Ancien régime, appaiono oggi più meticolosi e paradossali che profondi. Nelle arti non hanno certo il lungo sguardo di Baudelaire: incauti, oppongono il talento di Gavarni (cui dedicano uno studio) al genio "pletorico" di Daumier (e altre brusche liquidazioni ai danni di Delacroix e Courbet, e più tardi anche di Manet e Monet, non possono che lasciare esterrefatti). Quanto alla loro narrativa, nasceva da un'impalcatura teorica che intendeva coniugare l'osservazione più cruda e obiettiva ("naturalistica") della realtà a quella "écriture artiste" cui non seppero mai rinunciare: gli esiti suonano artificiosi, e tensione e struttura del racconto si disperdono spesso nelle minuzie di un descrittivismo inerte. Non è che in vita ai Goncourt mancassero riconoscimenti, buone recensioni, salotti aristocratici e cenacoli letterari: al contrario, erano nell'epicentro parigino, temuti, apprezzati e ricercati. Purtroppo, però, il destino che si configurava non era quello dell'immortalità senza riserve: morto Balzac, la scena era tenuta man mano da ben altri scrittori, Flaubert in primis.
Il Journal è un sismografo di questa disillusione, anche enfatizzata. Dopo anni di "ricerca laboriosa della gloria", Edmond non ritrova attorno a sé che "insulti, fischi e disprezzo"; l'invio di un nuovo romanzo di Zola "con la copertina nuova fiammante" lo mette in uno stato di stizza e sofferenza acutissime; quasi altrettanto gli emolumenti letterari dell'amico Gautier esaminati con notarile dettaglio. La loro ipersensibilità dalle "infinite vibrazioni nervose" (definizione di Henry James) tenta di resistere a questo terreno cedevole rivendicando a sé un ruolo di improbabili precursori del naturalismo ("siamo stati i primi scrittori di nervi") e di riscopritori di forme artistiche dimenticate (pittura del Settecento, arte giapponese ecc.). Infine, il tentativo supremo di eternizzare il nome coinciderà con gli sforzi tardivi di Edmond per creare la fortunata Académie.
Intanto, la Nemesi, indiscreta e faziosa, in tutti questi anni, era stata affidata all'esercizio quotidiano del Journal. Le forze motrici dell'opera (pessimismo, cinismo, maldicenza) non sfuggirono a due lettori infallibili dei primi volumi pubblicati (e sebbene purgati): Nietzsche e Henry James. Non c'è infatti personaggio della vita pubblica parigina di cui, con frecciata aforistica, spesso geniale, i Goncourt non rilevino una tara creativa, un difetto fisico o caratteriale, la goffaggine del vestiario o peccato dei più imperdonabili il gusto dell'arredamento: Renan, Taine, Flaubert, George Sand, Hugo, Sainte-Beuve, Turgenev, Dumas, Michelet, Barbey; né, dopo il 1870, sfuggirà al setaccio del superstite la generazione di Zola, Daudet, Loti, Huysmans, Maupassant, Barrès, France, Mirbeau. Del resto, il dire male degli amici (lo si legge alla data del 29 ottobre 1859) "è la più grande ricreazione mai scoperta dall'uomo sociale".
Senza ritegno, i vertiginosi reportage amano spingersi alla scorrettezza massima goncourtiana: quella di trascrivere per i posteri, magari dopo un'interminabile cena da Magny, le confidenze più intime ed estemporanee dei commensali (le bravate giovanili di Flaubert nei bordelli, il gusto per le fanciulline di Gautier). Ma quello del Journal è scopertamente un gioco al ribasso: i grandi ritrovi intellettuali della capitale culturale del mondo, sembrano suggerire i Goncourt, sono quelli di personaggi che, quando non magnificano la propria opera, finiscono con il parlare di aneddoti sessuali o di problemi legati a igiene, diete, insonnie, nevrosi, decessi (l'ipocondria corre sul filo). Ascoltarli, assicurano i fratelli, equivale a un "libro noioso e già letto" dominato dalla prevedibilità dei discorsi e da "pettegolezzi di provincia": ma allora, perché perpetuare gli incontri e stenografarli au jour le jour con l'impegno di due spie professioniste?
Anche per ciò troppe pagine del Journal si configurano non è il fascino minore dell'opera come annali d'una décadence epocale; non ultimi, quei frequenti rimpianti del secolo diciottesimo pre-Rivoluzione che vorrebbero umiliare il più borghese diciannovesimo, così misconoscente verso i Goncourt (le donne, ad esempio, discese dall'empireo idealizzato de La femme au dix-huitième siècle, divengono vacui e viziosi "strumenti di piacere": costante misogina del diario).
I pretesti di questa inarrestabilità del declino sono i più diversi e coincidono con il respiro quotidiano di Parigi, visto che per i Goncourt non c'è mondo fuori da biblioteche, musei, salons e tipografie della capitale. Nel 1860 rimpiangono la balzachiana Parigi del 1830-48, più intima e senza la neo-evoluzione sociale che fa pensare "a Londra o a qualche Babilonia futura" (anche in certe chiacchierate con Gautier o Hugo si paventa l'americanizzazione, l'interscambiabilità con Filadelfia o Pietroburgo; alle quattro del mattino la visione della città è invece quella "pietrificata" di "una qualche Pompei"). Secondo la diagnosi a dir poco nostalgica, la vita culturale, soprattutto quella del letterato, sarebbe stata sconvolta da una "democratizzazione" generale, quella che uccide il libro per la diffusione del giornale e il teatro per i trionfi del café-concert.
Paradossalmente, per il sopravvissuto Edmond, il diversivo più efficace alla morte recente di Jules saranno le imperterrite passeggiate tra le barricate della Comune, il bubbone scoppiato della democrazia: sta qui il torso del Journal e certo la sua parte più potente. Certe apocalittiche visioni del cielo color sangue nel blu scuro della notte a rue Saint-Lazare (dove si fondono cronaca, metafora e visionarietà) annunciano quasi la bellica sospensione metropolitana del Temps retrouvé.
D'altronde, senza voler scomodare Proust (lettore assiduo del Journal sino alla perfetta mimesi), va detto che, a dispetto delle migliaia di notazioni istantanee nate dalla volontà di immediatezza, è il Tempo che alla lunga finisce con l'essere il dominatore incontrastato; dallo stillicidio di "verità momentanee", le sue incessanti sinusoidi descrivono formazione, sviluppi e tracolli di rituali che sembravano eterni, di idee, ritrovi, mode, regimi, uomini. E come nei lunghi romanzi, la graduale sparizione di presenze fisse come quelle di Sainte-Beuve, Flaubert o Turgenev (rispettivamente nel 1869, 1880 e 1883) lasciano nel lettore il vuoto dei personaggi irrinunciabili. Con Sainte-Beuve si perde il pimento di chiacchiere intrise nell'arsenico; con Flaubert, insieme a tante altre cose, la caricatura del martire e anacoreta del bien écrire, con pose gonfiate, voce stentorea, logorrea.
Del Journal dei Goncourt questo inestricabile coacervo di invidie e di ascesi, di vitalismo e di malinconie, di modernità e di reazione, di umoralità e lucidità Mario Lavagetto aveva magistralmente curato nel '92 una scelta per Garzanti che resta un punto fermo. Il coraggio dell'integralità va oggi però all'iniziativa dell'editore torinese Aragno e alla cura di Vito Sorbello, cui si deve una traduzione efficace e un' introduzione invogliante (La verità istantanea"). I tre tomi si fermano al 1870; i tre successivi e ultimi, di prossima pubblicazione, sono quindi di pugno di Edmond ("la veuve", secondo una definizione coeva). L'invidia, motore immobile, non abbasserà però la guardia, spostando insensibilmente il maggior bersaglio da Flaubert a Zola (e con quali aggravanti: incuria dello stile, simpatie socialiste, tirature dei romanzi a centinaia di migliaia). In compenso, l'antisemitismo militante di tante pagine si attenua in occasione del caso Dreyfus; e soprattutto, nel proprio e in altrui giardini, il vecchio Goncourt scopre estasiato quella "natura" così ostinatamente negata e rimossa da decenni di musei e di biblioteche, dal febbrile "piacere di un'idea, di una linea", dall'ossessione dei successi altrui. "Essi respirano soltanto nel mondo dei soggetti e delle forme" aveva scritto James con ammirazione, percependo altresì in una vocazione così esclusiva "mancanza di aria e di spazio". Su quel cortocircuito di intelligenze e sul loro aureo "recinto" metropolitano avrebbe avuto voglia di aprire "un paio di finestre" e lasciare entrare "un po' d'aria del mondo". Carlo Lauro
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